AMERICA LATINA TRA LULA E BUSH
Crisi economica diffusa, povertà, violenza eppure le popolazioni latinoamericane
sono più vive che mai, pronte a raccogliere la speranza là dove sembra spuntare.
Ne abbiamo parlato con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez,
con monsignor Jaime Henrique Chemello (già presidente della Conferenza episcopale del Brasile) e con un giovane sacerdote.
1 / INCONTRO CON GUSTAVO GUTIÉRREZ:
«Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez è l’iniziatore della corrente spirituale innovatrice conosciuta come “teologia della liberazione”. La corrente propugna un’attenzione particolare al mondo degli esclusi, suggerendo che la “liberazione” sostenuta dal messaggio cristiano non è applicabile unicamente all’aspetto spirituale dell’essere umano, ma anche alle sue condizioni sociali e materiali. In quest’ottica, la proposta della teologia della liberazione non si limita a costruire una base teorica, ma al tempo stesso è una pratica che, specialmente nei paesi meno sviluppati, ha stimolato l’elevazione in dignità delle condizioni di vita di milioni di esseri umani».
Con questa motivazione la giuria del prestigioso «Premio Principe delle Asturie» ha assegnato a padre Gustavo Gutiérrez (1) il riconoscimento 2003 nella categoria della comunicazione e lettere umane. I premi, destinati ogni anno dal 1981 ad esponenti di 8 aree del sapere, sono considerati i Nobel dell’area ibero-latinoamericana.
Ad inizio anno, l’«Accademia delle Arti e delle Scienze» di Cambridge (Massachussets, Usa) aveva incluso il teologo peruviano tra i suoi membri onorari. Noi lo intervistammo per la prima volta alla fine del 1997, a Lima (2). Pochi mesi dopo, padre Gutiérrez sorprese tutti entrando, alla bella età di 70 anni, nell’Ordine dei domenicani.
Negli ultimi anni lei è vissuto più all’estero che in Perù, suo paese natale. Dove lavora ora, padre Gutiérrez?
«Dal 2001 sono negli Stati Uniti, dove insegno teologia. A Lima, però, continuo il mio lavoro pastorale in una parrocchia e le altre attività nel Centro Bartolomé de las Casas».
Padre, che cosa significa insegnare teologia negli Stati Uniti, cioè nel paese che ha riesumato il concetto di «guerra preventiva»?
«Gli Stati Uniti non sono un paese, ma un continente. È vero che gli americani sono favorevoli alla guerra, ma è altrettanto vero che molti altri sono contro, per esempio all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, dove insegno».
Cos’è la guerra?
«È una minaccia. È un crimine. È la volontà di potere della più grande potenza del mondo. Non possiamo accettarlo né come uomini, né come cristiani. Dobbiamo lottare per la pace, ma una pace, come si dice nella bibbia, fondata sulla giustizia».
Che pensa del Perù di Alessandro Toledo?
«Se facciamo il paragone con il periodo della dittatura e della corruzione, adesso in Perù abbiamo un clima democratico, seppur con molte difficoltà economiche e politiche.
Non è facile la transizione da un regime corrotto come quello di Fujimori (che è ancora presente in molte istituzioni del Perù) e andare verso una democrazia; ma questo processo è in atto, seppure non in modo stabile e solido. Insomma, è già qualcosa».
Con tutto il rispetto per il Perù, tutti guardano al nuovo Brasile di Lula, sul quale pesano aspettative enormi. Ma la sfida dell’ex operaio e sindacalista è tremendamente difficile...
«In questo momento, Lula è una grande speranza non solo per il Brasile, ma per tutta l’America Latina. Certamente la sua non sarà un’impresa facile.
Noi abbiamo avuto in America Latina altri momenti di svolta: il Cile, il Nicaragua, la Bolivia. Ma oggi la sfida è più importante, perché il Brasile è un grande paese ed ha una dirigenza politica preparata. Agli amici brasiliani dobbiamo suggerire di essere non tanto prudenti (che non è la parola esatta), quanto maturi politicamente per andare bene. Credo che il programma di Lula sia molto buono, molto chiaro. Sono convinto che tutto questo sia veramente importante».
Sembra che nel mondo si stia creando una netta divisione tra paesi cristiani e paesi islamici. Secondo lei, questa è una scusa, oppure c’è una vera contrapposizione religiosa?
«In larga misura è un pretesto. A dire il vero, si potrebbe dire che la contrapposizione è tra paesi ricchi e potenti e paesi islamici poveri. La divisione religiosa non è la più importante, ma è facile per certe persone dei paesi ricchi parlare di una contrapposizione religiosa. Così rimangono oscure le vere ragioni del contrasto.
Questa tesi della contrapposizione tra civiltà occidentali e orientali non è poi così rilevante e forse interessa soltanto gli intellettuali. Credo che ci siano altri aspetti più importanti della civilizzazione. Dobbiamo fare altre analisi. Personalmente, sono contro i paesi ricchi per molti aspetti, ma non perché la mia civiltà sia differente dalla loro».
Torniamo al suo lavoro di professore negli Stati Uniti. Che cosa racconta ai suoi studenti dell’Università di Notre Dame?
«Parlo di spiritualità. Spiego la teologia della liberazione e l’opzione preferenziale per i poveri, trovando dei giovani molto aperti».
Quanti anni hanno i giovani a cui lei insegna?
«Attorno ai 25 anni, qualcuno un po’ meno, altri un po’ di più, ma tutti sono molto aperti».
Ma che cosa pensano del loro presidente George W. Bush, che considera la guerra uno strumento per risolvere i problemi internazionali e per far prevalere gli interessi statunitensi?
«I miei studenti (ovviamente non posso parlare di tutti gli studenti) sono contro la guerra, assolutamente contro. Allo stesso tempo, il loro contesto è totalmente differente da quello dei latinoamericani, dei peruviani per esempio. È un altro mondo, ma trovo questa gente seria e molto aperta per lavorare».
Come sta la «teologia della liberazione» nel 2003, cioè 32 anni dopo la sua nascita?
«Sta bene. Lavoriamo molto. In questi ultimi anni ci stiamo dedicando anche ad altri aspetti e all’approfondimento di un’intuizione originale che, nei primi scritti, abbiamo chiamato “la complessità della libertà”. Significa prestare attenzione non soltanto agli aspetti economici delle realtà, ma anche a quelli culturali, razziali, di genere.
Un altro aspetto è la critica al pensiero unico neoliberista e il nostro punto di partenza è “l’opzione preferenziale per i poveri”, che ancora oggi costituisce il punto centrale della teologia della liberazione».
2 / INCONTRO CON JAIME HENRIQUE CHEMELLO:
Nato nel municipio di São Marcos (Rio Grande do Sul) nel 1932, Jaime Henrique Chemello è vescovo dal 1969. Fino allo scorso maggio presidente della «Conferenza episcopale del Brasile» (Cnbb) (1), oggi monsignor Chemello è a capo della «Commissione episcopale per l’Amazzonia».
Come uomo e come vescovo, che pensa della guerra?
«Penso che la guerra sia proprio una cosa cattiva, deplorevole, tristissima. Il Santo padre ha già detto queste cose e ha pregato molto per la pace non solo in Iraq, ma anche in Palestina».
Il presidente Bush ha reintrodotto i concetti di guerra «preventiva» e di guerra «giusta» contro quelli che lui giudica essere nemici dell’umanità. È concepibile?/
«Non credo che possa esistere il concetto di guerra “giusta”.
La guerra non porta mai niente di buono. Perché essa è distruzione, soprattutto di vite umane».
Lei è un vescovo molto noto. Come vede il nuovo Brasile di Lula?
«Io lo vedo come tutto il popolo: con speranza, ma non sono sicuro che andrà sempre bene. Bisogna lavorare molto, collaborare, perché Lula da solo non può fare niente. Il popolo deve dare il suo appoggio, lottare perché l’idea è buona».
Lula potrebbe lavorare anche se avesse una parte della comunità internazionale, quella che detiene il capitale finanziario, contraria alle sue decisioni?
«Sarebbe molto difficile, ma Lula sta facendo di tutto per adattarsi alla situazione internazionale. Va in giro per il mondo per spiegare la sua posizione rispetto alla realtà. Molta gente lo ascolta perché ha una personalità molto forte».
È indubbio che il Brasile abbia moltissimi problemi. Volendone fare un elenco, lei che cosa metterebbe ai primi posti?
«La fame e poi anche il non poter lavorare, guadagnarsi la vita con dignità. Anche la violenza è una cosa tristissima. Il Brasile necessita quasi di tutto.
Anche per la Conferenza episcopale (2) la lotta per superare il problema della fame è prioritario. E poi c’è l’Amazzonia, che è una questione molto grande per noi e i suoi abitanti».
Che ci dice del «Movimento dei sem terra»?
«È un’organizzazione che ho già aiutato molto. È un movimento difficile perché affronta una lotta difficile. I contadini senza terra hanno lottato e sofferto molto e per questo bisogna capirli».
I rapporti della chiesa cattolica con le altre religioni del Brasile.
«Grazie a Dio abbiamo fatto molta strada, perché l’ecumenismo e il dialogo interreligioso per noi è molto importante».
Ma con chi esattamente avete dialogato?
«Dialoghiamo soprattutto con chi aderisce al “Consiglio nazionale delle chiese cristiane del Brasile” (Conic) (3), che raccoglie le chiese tradizionali. Con questo organismo facciamo anche iniziative sociali in comune».
In Brasile c’è un numero esagerato di sétte evangeliche. Rappresentano un problema? E, se sì, come lo si affronta?
«Già il termine sétte non ci piace. Non è che sia sbagliato, ma sottintende qualcosa di cattivo. Noi li chiamiamo “movimenti religiosi autonomi”. Comunque, il problema esiste e qualche volta è difficile. Ma, nonostante le difficoltà, bisogna lottare sempre».
Monsignore, cosa pensa dell’influenza che gli Stati Uniti hanno sull’America Latina in generale?
«Credo che adesso gli Stati Uniti stiano facendo una politica molto complessa, ma dalle reazioni dei popoli di tutto il mondo (non solo dell’America Latina) pare che questa loro politica non sia affatto giusta. Sono sempre di più i paesi contro gli Usa. Lo vedo di persona: in tutti i posti dove mi reco, c’è sempre una riserva contro la politica praticata da Washington».
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