Contro le guerre e il dio-profitto (aprile 2002)
Forum di Porto Alegre (2002)

«Lasciamo il pessimismo per tempi migliori»


Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile? Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta nel «World Social Forum» di Porto Alegre? Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe 1925, primo di 14 figli, François Houtart è direttore del «Centro Tricontinentale» di Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il centro accoglie ricercatori provenienti da tre continenti: America Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche nei campi della sociologia, della cultura e della religione. Quella delle grandi collaborazioni internazionali è una caratteristica di Houtart, che è anche segretario del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato organizzatore del Forum di Porto Alegre.
Lo incontriamo in una delle grandi sale della «Pontificia università cattolica» (Puc), mentre, seduto in prima fila, è in attesa dell’inizio di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti da tutto il mondo per capire se «un altro mondo è possibile». Ma, sia sincero, in questi tempi parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta. Il problema è che, oggi come oggi, non c’è la volontà politica per attuarla. D’altra parte, le 60.000 persone giunte da tutto il mondo per questo secondo Forum di Porto Alegre sono a dimostrare che la voglia di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata per le vie di Porto Alegre i manifestanti scandivano slogan contro le istituzioni internazionali: Fondo monetario (Fmi), Banca mondiale, Area di libero commercio delle Americhe (Alca), Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Anche alla luce della recente riunione di Doha, quale aspetto di quest’ultima le sembra più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale, difesa con i denti dalle industrie farmaceutiche. Un mio fratello lavora nel campo farmaceutico. È un esperto internazionale di processi di fabbricazione. Non ha idee socialiste, tutt’altro. Alcune volte è stato mandato a Cuba e mi ha detto: “Cuba è molto più efficiente nella ricerca scientifica di un paese capitalista. Hanno 40 laboratori e, quando uno di essi scopre una cosa nuova, immediatamente lo comunica agli altri. Allora si fa una riunione per capire quale laboratorio è più efficiente per continuare l'investigazione. Nel mondo capitalista la prima cosa che si fa è chiedere il brevetto per fare denaro. La privatizzazione della ricerca scientifica serve a giustificare il profitto di pochi. L’alternativa è che la ricerca scientifica sia un settore di competenza pubblica, sostenuto con soldi pubblici. Per il vantaggio della collettività e non a servizio delle multinazionali...».
Ma le industrie si giustificano dicendo che se non c’è la proprietà dei brevetti, si frena la ricerca...
«Mi viene in mente l’inventore dei “raggi X” (Wilhelm Conrad Röntgen, 1845-1923, premio Nobel per la fisica nel 1901, ndr), che si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene che con il vertice di Genova (luglio 2001) e di Doha (novembre 2001) si sono fatti passi in avanti nel campo delle politiche sanitarie. È vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono avvenuti per puro caso. Dapprima, per lo scandalo del Sudafrica, poi a seguito della vicenda dell’antrace, quando il governo degli Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer per costringerla a vendere l’antibiotico a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore, ma lei è anche un sacerdote...
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono - risponde con un sorriso - amico di papa Wojtyla da oltre 30 anni. L’ho conosciuto da giovane, quando studiavo in seminario a Roma. Egli veniva a trascorrere le sue vacanze di natale e pasqua in Belgio, mentre io lo visitavo spesso in Polonia, a Cracovia soprattutto. In seguito, ci ritrovammo al Concilio Vaticano II in una commissione preparatoria per la “Gaudium et Spes”, della quale io ero il segretario. Dopo la sua elezione a papa, io non l’ho più visto...».
Le sue idee, i suoi studi le hanno creato qualche problema con i vertici ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo mi ha aiutato a non rompere. Comunque, i miei problemi non sono iniziati con il pontificato di Giovanni Paolo II. Già durante la conferenza di Medellin, dove ero stato invitato dalla Conferenza latinoamericana, sono stato fatto oggetto di veto da parte della Santa Sede. Identicamente c’è stato un veto per la mia nomina alla testa dell’“Istituto missiologico” dell’Università di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato lungamente presso l’Università di Lovanio, una delle più antiche e prestigiose università cattoliche del mondo...
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio per oltre 30 anni, dal 1958 al 1990. Ad onor del vero, anche lì ho avuto un paio di richiami... Tutto ciò non mi ha impedito di avere rapporti normali con l’episcopato belga e gli organi centrali della chiesa. Io affermo la mia appartenenza alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei paesi e poi dalla stretta amicizia che mi ha legato a monsignor Helder Camara. Comunque, non mi sono interessato soltanto di America Latina. Ho lavorato anche in Asia, soprattutto in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori del «Forum sociale mondiale » di Porto Alegre. Rispetto ad esso le opinioni sono discordanti. Qualcuno lo disprezza, altri sorridono con sufficienza, altri ancora sparano insulti contro i partecipanti, definendoli illusi o addirittura pericolosi, nemici dei poveri e del progresso...
«A me pare che Porto Alegre abbia prodotto un effetto fondamentale sul piano internazionale. Vale a dire un cambiamento di prospettiva, in base al quale all’idea dominante che non ci sono alternative al cammino del capitalismo oggi si contrappone l’idea che “un altro mondo è possibile”, perché esistono delle alternative credibili. Per sintetizzare, possiamo dire che il “Forum Social Mundial” di Porto Alegre rappresenta il punto di vista della società civile dal basso, mentre il “World Economic Forum” di Davos (quest’anno spostato a New York) porta avanti le istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità principale del Forum di Porto Alegre è sulle spalle di movimenti latinoamericani ed europei. Ma stiamo lavorando per coinvolgere di più il mondo africano, asiatico ed arabo. Per questo è probabile che, dopo la prossima edizione (ancora a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori che scrivono alla nostra rivista) affermano che tutti questi movimenti contrari alla globalizzazione sono, per la loro stessa natura, contro la società nella quale vivono. Per dirla in maniera popolare, sarebbero «persone che sputano nel piatto nel quale mangiano». Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni, che non hanno l’obbligo di essere d’accordo su un testo unico. D’altra parte, è vero che a Porto Alegre si riuniscono tutti i soggetti che hanno preso posizione contro il neo-liberismo e il capitalismo, e a favore di una ricerca di alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche molti pericoli: una certa dominazione delle Organizzazioni non governative (Ong) sui movimenti sociali, una folklorizzazione dei movimenti di resistenza contro la mondializzazione della filosofia capitalista, una repressione sempre più forte (soprattutto dopo l’11 settembre) da parte dei poteri dominanti, con una criminalizzazione delle resistenze e delle lotte sociali, e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue considerazioni, non mi pare si possa essere molto ottimisti per il futuro...
«Guardi, voglio risponderle con le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo il pessimismo per tempi migliori”».


Per un’«ecologia dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano pericolosamente su teste e tastiere. Le pance provano a ritrarsi per tentare di passare nei pochi centimetri che separano una postazione di computer dall’altra. Ci si muove a fatica nella sala stampa del Forum. L’hanno sistemata in posizione strategica (ovvero di fronte ai grandi saloni delle conferenze), l’hanno attrezzata con computer nuovi fiammanti, ma hanno esagerato a comprimere gli spazi. O, forse, non hanno previsto che al secondo appuntamento di Porto Alegre si sarebbero presentati 3.000 giornalisti da 50 paesi. Già, l’informazione. Una delle tematiche a cui gli organizzatori del Forum hanno lasciato più spazio, per cercare di rispondere a una serie di difficili quesiti. Negli spazi dello splendido campus della Pontificia università cattolica (la Puc, sede principale del Forum) sull’argomento si sono susseguite conferenze, dibattiti, seminari. Proviamo allora a riassumere i termini della discussione attraverso le tesi sostenute da alcuni dei principali relatori.

LE NOTIZIE? BREVI, SEMPLICI, LEGGERE
Si dice: nell’era della globalizzazione, l’informazione è una merce come un’altra. Una simile affermazione corrisponde al vero? Tutti i relatori hanno concordato che (purtroppo) questa è una tendenza ormai consolidata. In un processo di globalizzazione di tutto e tutti, anche l’informazione è diventata una merce che circola secondo le leggi del mercato: domanda e offerta.
Le multinazionali della comunicazione hanno fissato le caratteristiche del prodotto-informazione. Come debbono essere, allora, le notizie? «Brevi, semplici, leggere» ha spiegato Ignacio Ramonet. Ciò produce conseguenze rilevanti. Secondo il giornalista francese, tutto è ridotto a schemi elementari. Come si nota nell’informazione che riguarda il Sud del mondo. I paesi del Sud sono rappresentati soltanto a tinte forti. Come un paradiso quando si parla dei loro prodotti (il caffè, le banane ecc.) o delle loro attrattive turistiche. Come un inferno nelle uniche occasioni in cui la televisione si occupa di loro e cioè in concomitanza con tragedie naturali, guerre civili, genocidi, colpi di stato. Questa descrizione caricaturale confonde le idee, crea stereotipi e, in ultima analisi, disinforma. Ma - si obietta - ci sono così tanti mezzi d’informazione che chiunque ha la possibilità di scegliere tra una pluralità di fonti alternative... Oggi l’informazione si è moltiplicata (soprattutto grazie alle nuove tecnologie), ma il fenomeno della concentrazione proprietaria si è accentuato.
«La globalizzazione - ha spiegato Manuel Vasquez Montalban - non è soltanto economica, ma anche ideologica. L’idea di base (“ha valore ciò che produce lucro”) deve essere diffusa. Ecco, dunque, il motivo della crescente concentrazione dei mezzi di comunicazione: la propagazione del pensiero unico neoliberale». Il calcolo è presto fatto: tanti media in poche mani significano meno pluralismo e quindi meno diversificazione. Negli Stati Uniti, per esempio, 5 grandi consorzi detengono il controllo dell’informazione. Non c’è quindi da stupirsi se i contenuti (e i messaggi) si assomigliano tutti, proprio come una qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO È INNOCENTE
«Il problema con i grandi media - ha precisato Montalban - è “saper leggere”. In primo luogo, dobbiamo chiederci chi è il padrone del mezzo e cosa questi vuole proporci. Nessun messaggio è innocente!». La qualità della notizia è diventata così poco rilevante che le imprese produttrici tendono a offrire l’informazione gratuitamente. Ma dove sta allora il business? «Le imprese in realtà - ha spiegato Ignacio Ramonet - non vendono informazioni ai cittadini, ma questi ultimi agli inserzionisti». E la veridicità è ancora ingrediente fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste una diffusa contaminazione dell’informazione, tanto grave da riuscire a trasformare la menzogna in verità e la verità in menzogna. Per questa ragione il direttore de Le Monde Diplomatique propone di praticare una nuova forma di ecologia: «l’ecologia dell’informazione », attuata attraverso appositi osservatori istituiti in ogni paese. Esiste la possibilità di avere una contro-informazione? Per Roberto Savio, fondatore e presidente emerito dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, a un’informazione fondata sulle regole della globalizzazione (come il profitto e l’efficienza) è necessario opporre una informazione basata sui valori dei cittadini: solidarietà, giustizia, equità e partecipazione. È vero che stanno apparendo mezzi di comunicazione alternativi, «però - ha confessato Montalban - è difficile resistere». Internet è, oggi, uno strumento fondamentale per mettere in comunicazione la società civile, ma va utilizzato bene. Perché, dopo aver imparato a difenderci dall’informazione del sistema, occorre non cadere nello stesso errore. «La controinformazione - ha sottolineato Ignacio Ramonet - deve essere rigorosa. Altrimenti non serve alla causa».

ALTRO MONDO, ALTRA INFORMAZIONE
È stato detto: un altro mondo sarà possibile solo con un’altra informazione. Difficile non concordare con questa affermazione. Manuel Vasquez Montalban ha portato l’esempio della CNN in lingua spagnola (la famosa televisione statunitense ha anche un canale in questo idioma). «Il canale nordamericano - ha avvertito lo scrittore spagnolo - sta seguendo sia il Forum di New York che quello di Porto Alegre. Ma ha un approccio completamente diverso nei confronti dei due avvenimenti. Serio per l’evento statunitense, folcloristico per quello brasiliano». Capito come funziona il meccanismo?


Sfogliando s’impara...
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (...) ha riunito nel Waldorf Astoria di New York capi di governo, industriali, banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato. (...) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia occidentale e liberista. Il capitalismo non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico «Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto. La lunga kermesse di Porto Alegre (...) ha rassicurato il movimento sulla sua capacità di superare le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito da Pro Civitate Christiana (Assisi), 15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale, mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”. (...) Oggi, in tutto l’Occidente ricco, non c’è paese che possa vantare una vitalità critica, democratica, così intensa come questa Italia, dove c’è un’altra Italia così poco “global” che fa fatica persino a stare in Europa. (...) E infine c’è la sterminata galassia cattolica, che vedo emergere con una vitalità strabiliante. Un segmento di società italiana vasto, dinamico, carico di idealità. Anche loro in libera uscita, forse definitiva, rispetto alle rappresentanze cattoliche istituzionali. (...) Fino a luglio del 2001 si diceva che il movimento era incoerente, contraddittorio, che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa», 18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto di difendere un’economia che non si regge se non sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(...) Noi non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste economiche e sociali, noi abbiamo il dovere di farlo (...). I paesi non nascono ricchi, diventano ricchi. (...) C’è un solo modo per diventare ricchi, ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende ricchi i paesi. (...) Coloro i quali si oppongono allo sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno persino la pretesa di farlo in nome della difesa dei poveri. (...)”. Un commento? Non è superfluo segnalare il cinismo delle argomentazioni di questo discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri di questo pericolosissimo governo). La sostanza del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere la nostra economia di rapina? Il governo dice SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia di rapina. (...) Lo sviluppo economico è indipendente dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe la questione morale, di cui non si vuole più parlare (...)».
Da «Tempi di fraternità», periodico cattolico di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia, c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato. Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere. (...) I lavoratori vogliono conservare le loro pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto che i vostri risparmi contributivi finiscano nei ‘fondi pensione’ (...). E se i fondi pensione investono male, o sono sfortunati, e perdono i vostri soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo», settimanale cattolico di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare i poteri del Wto o mandarlo a picco (...) distruggerebbero la gallina dalle uova d’oro. Dobbiamo respingere con decisione queste istanze, ma anche tenere in considerazione le preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica», 9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi all’economia, al pensiero e alla politica neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione alla proposta, dall’impotenza alla convocazione efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix do Araguaia (Brasile), sul quindicinale «Adista», 14 gennaio 2002


...il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente - anche per la non casuale contemporaneità - il Forum economico di Manhattan al Forum “no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in larga prevalenza a Porto Alegre. Il buonismo - che non costa nulla e piace molto - induce a parteggiare per gli apostoli terzomondisti vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie, anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi nei loro santuari ovattati. (...) I capitalisti e il capitalismo hanno trovato (...) un sostegno nelle manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti e truffaldine, nonostante la loro ostentata nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica saltellante della povertà diventa disgusto se ci si riferisce alla marea di politici che (...) sanno quanto squinternate e fanfarone siano le parole d’ordine dei “no global”. (...) Che pena, per usare un eufemismo pietoso».
Mario Cervi sul quotidiano «Il Giornale», 2 febbraio 2002

«UN CAPITALE E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo tempo convulso (...), il movimento mondiale che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo con oggettività deve, intanto, prendere atto di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti eventi e tante notizie, continuare a dubitare o, peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata profondità storica del movimento. (...) Un altro elemento assolutamente caratterizzante è che non siamo davanti a un movimento soltanto critico (né men che meno unicamente protestatario) ma, non cessando di essere tale, esso è anche intensamente propositivo e costruttivo. (...) Altrettanto brutale, fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (...) Il senso vero del movimento è di mettere a tema i problemi della società globale. Da quando (...) la globalizzazione dell’economia, della politica, della cultura (...) ha toccato una nuova misura (...), l’intreccio dei problemi generati da questo nuovo modo di essere (...) della condizione umana, si è fatto più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione degli elementari bisogni di sostentamento materiale, di crescita umana, di pacifica convivenza. (...) La riscossa della società (...) si va componendo appunto attraverso il nuovo movimento globale. (...) Altro che movimento “no-global”! (...) Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti, reti minori (...) una responsabilità per l’umanità che spesso manca di essere altrettanto acuta nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza per il mondo che occorre coltivare con delicatezza e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale edito da Pro Civitate Christiana (Assisi), 1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità, sarebbe entrato in crisi davanti al programma del secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre (...). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo è in costruzione”) non lascia dubbi: i noglobal (...) vogliono rifare tutto, ma proprio tutto. (...) I temi messi in discussione dagli antiliberisti sono sterminati. Si va dai “cavalli di battaglia”, cioè commercio mondiale, multinazionali e debito estero, alla “democratizzazione della comunicazione”; dall’accesso alla ricchezza alla sostenibilità dello sviluppo; dalla lotta contro le discriminazioni fino alla proprietà intellettuale, etica e politica, diritto alla salute, questioni ambientali, guerra e terrorismo internazionale. (...) I maestri del pensiero no-global tentano di articolare un’intera visione del mondo anticapitalista. (...) Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta la minaccia dei Black Bloc (...) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Giornale», 31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto, pensosi uomini di Stato - soprattutto in pensione - e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani agli anarchici greci, dagli “amici del consumatore” americani di Ralph Nader ai Black Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli da Washington per il quotidiano «Il Giornale», 2 febbraio 2002


«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza, insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche, assenza di protezione sanitaria e altri analoghi. Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano per ognuno di questi problemi competenti organismi internazionali (dell'Onu, della Fao, dei ministeri...), adeguati aiuti economici e ancora più stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo della terra si imponga il buon agire e il buon fare... Io ragiono diversamente e parto da una domanda: quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa e in genere nei paesi ricchi d'Occidente? Qualcosa in verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta: da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto benessere di massa. Altrove manca del tutto o non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori », come postula il confuso piagnisteo dei no global! Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile del capitalismo e del mercato porta in sé l'eliminazione o, quanto meno, la drastica riduzione dei problemi elencati all'inizio. Non è una differenza da poco, cari compagni. Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal Brasile con l'idea di prendere a pretesto le sofferenze del mondo per gonfiare le burocrazie internazionali (un posticino non si nega a nessun militante...), sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo sessuale.
Luigi Fressoia


«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del «Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio 2002. Decine di migliaia di persone, venute da 131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità, movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma un’ampia rappresentazione nazionale e internazionale (...). Il FSM è più che uno spazio aperto al dialogo e al dibattito. Oltre ad essere un incontro tra persone ed idee, culture ed esperienze, l’evento è un cammino per la costruzione collettiva di un modello alternativo di società. I partecipanti all’unisono, attraverso conferenze, dibattiti e seminari, hanno sollevato critiche contundenti alla globalizzazione neoliberale, quale modello accentratore ed escludente. Nello stesso tempo, hanno cercato di indicare le vie per una nuova civiltà: giusta, solidaria e fraterna. Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile, pluralistica, democratica e senza esclusione. Se il «Forum economico mondiale», a New York, si è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate, delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione della giustizia, della solidarietà e della pace, in un mondo ricreato dall’intelligenza umana. (...) Seminari, conferenze, dibattiti hanno fatto di Porto Alegre la capitale del «pensiero politico alternativo» contrapposto al «pensiero unico». Il FSM, sia nella prima che nella seconda edizione, ha rappresentato un vero segno dei tempi. Segno del quale si può dire a gran voce e non in termini interrogativi, ma affermativi: um outro mundo é possível! («un altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale brasiliana (Brasilia, 7 febbraio 2002)


«SIAMO UN MOVIMENTO DI SOLIDARIETÀ GLOBALE»
Di fronte al continuo deterioramento delle condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti sociali del mondo intero, ci siamo incontrati in decine di migliaia nel secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo qui in gran numero a dispetto dei tentativi di spezzare la nostra solidarietà. (...) Siamo diversi (...). L’espressione di questa diversità è la nostra forza e la base della nostra unità. Siamo un movimento di solidarietà globale, unito nella determinazione di lottare contro la concentrazione della ricchezza, la proliferazione della povertà e delle ineguaglianze e la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle. (...)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso azioni e mobilitazioni comuni per la giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà; per la qualità della vita, l’uguaglianza, la dignità e la pace. Lottiamo:
- per la democrazia: i popoli hanno il diritto di conoscere e criticare le decisioni dei loro governi, specialmente quando riguardano istituzioni internazionali (...);
- per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione; - contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione di tasse specifiche, come la Tobin tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
- per il diritto all’informazione;
- contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento delle donne;
- contro la guerra e il militarismo, contro le basi e gli interventi militari stranieri, e la sistematica escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare il negoziato e la soluzione non violenta dei conflitti;
- per una Unione europea democratica e sociale, basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli, che includa la necessità della collaborazione e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
- per i diritti dei giovani, il loro accesso a una istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma, e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
- per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato organizzatore, il Forum non produce un proprio documento finale.


«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE» Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti, possiamo trovare le chiavi per disinnescare i meccanismi dell’economia neoliberista che, nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie dei diritti umani universalmente riconosciuti, distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni insostenibili, minacciando la stessa democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti. Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo, a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati. Per un cambiamento possibile, come ci hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma, dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati. Spaventati dalla violenza della repressione, ma anche diffidenti rispetto a meccanismi di rappresentanza del movimento e di scelta dei contenuti e delle azioni (...). (...) saremo insieme, ma solo se saremo davvero tutti, condividendo uno stile nonviolento della nostra iniziativa politica dal quale non vogliamo prescindere. Una partecipazione orizzontale, senza relatori o portavoce non scelti da tutti, in un confronto aperto (...) tra tutte le realtà presenti, impegnandoci ad allargare, a tornare a quella pluralità che aveva dato forza e spessore al Genoa social forum. Insieme con le nostre storie, politiche, valori, fedi, convinzioni tutte sullo stesso piano, compagni, compagne, fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum, con regole certe e condivise da tutti, perché il vero Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze, nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi, in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi della preghiera e della disperazione. Ma solo insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto, tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio, don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino (Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti (Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza), ecc.ecc.



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