Contro le guerre e il dio-profitto (--1996)
REPORTAGE - Dal Costa Rica a Panama via Guatemala

L’UOMO DEL MONTE HA DETTO SÌ

Detto «sì» a cosa? Allo sfruttamento di uomini e natura: terreni esauriti dalla monocoltura, acque inquinate dai pesticidi; le foreste pluviali del Costa Rica tagliate per far posto alle piantagioni; le tartarughe marine che rischiano di venir soffocate... dai sacchetti «proteggibanane». Migliaia di braccianti ricevono salari da fame, ma debbono ringraziare di avere un lavoro. A Bocas del Toro, in territorio panamense, sembra di vivere dentro uno spot. La ferrovia, il porto, gli edifici: tutto (ma proprio tutto) è firmato «Chiquita». Se questo è il prezzo delle banane...

In Costa Rica la coltivazione in grande stile dei bananeti iniziò negli ultimi decenni del secolo scorso. La prima importante concessione venne accordata nel 1871 alla «United Fruit» di Minor Cooper Keith. Nel 1878 il presidente costaricense, generale Tomas Guardia, fece iniziare i lavori per la costruzione di una ferrovia tra la Valle Central e Puerto Limón sull’Atlantico. Presto, a causa dei gravi problemi finanziari, il governo fu costretto a chiedere capitali all’estero. Intervennero allora la famiglia Keith ed altri imprenditori statunitensi, che in cambio del prestito ebbero modo di aggiudicarsi più di 300 mila ettari di terreno e per 99 anni il diritto di usufrutto della ferrovia, che sarebbe servita per trasportare le banane fino alla costa atlantica. La costruzione della strada ferrata e la coltivazione delle banane in piantagioni sempre più estese provocò rilevanti mutamenti sociali: dalla Giamaica si fecero arrivare lavoratori di colore e migliaia di campesinos, privati delle loro terre, furono costretti a trasformarsi in braccianti. Nelle piantagioni del Costa Rica lavorano oggi più di 50 mila braccianti bananeros. Le paghe si aggirano sui 200 dollari al mese, insufficienti per garantire un livello di vita dignitoso; ce ne vorrebbero almeno 250. Ci fossero almeno altri «benefici»: sicurezza del posto, assistenza sanitaria, libertà di associazionismo... Invece, niente di tutto questo: l’80% dei braccianti non ha contratti di lavoro stabili, né contributi sociali, né diritti sindacali.

«BIENVENIDOS» ALLA FINCA DEL MONTE
I camions delle compagnie bananiere sfrecciano per le strade del Costa Rica. Le piantagioni si susseguono lungo il percorso. Ma l’ambito frutto non si vede. È nascosto dentro una ...busta. Le piante di banane sono un bersaglio facile e succulento per insetti e funghi. Ogni casco viene quindi avvolto in una busta di plastica azzurra irrorata di pesticidi. Ragioniamo un attimo: milioni di caschi di banane significano milioni di sacchetti di plastica colorata. Questi dove andranno a finire una volta terminato il loro compito? Sicuramente non saranno riciclati né raccolti per finire in un inceneritore. La risposta è più banale e, proprio per questo, più drammatica: saranno dispersi nell’ambiente circostante. E, infatti, brandelli di plastica blu (intrisa di residui di pesticidi) insudiciano il paesaggio: corsi d’acqua, scogliere coralline, alberi. La «finca» Freeman «Bienvenidos a finca Freeman I. Aqui laboramos 150 trabajadores en paz y armonia gracias al solidarismo». Il vistoso cartello (firmato con il logo della multinazionale «Del Monte») è posto proprio all’entrata della piantagione. Che questa sia un’isola felice? Il posto non si presenta male. C’è addirittura un bel campo verde per giocare a calcio. E, tutt’attorno, le casette degli addetti della piantagione. Piccole, uguali. Ci incamminiamo verso la «empacadora». Sotto la grande tettoia lavorano una quindicina tra donne e uomini. Il ritmo è frenetico, quasi da catena di montaggio. I caschi di banane arrivano agganciati al filo di una speciale carrucola, simile ad uno skilift che attraversa le piantagioni. Due uomini procedono ad un primo esame, segnando su una lavagna le risultanze: tipo di banana, finca di provenienza, peso del casco, qualità. Poi i caschi passano alle donne che li tagliano in grappoli di 3/4 banane, scartando quelle di qualità inferiore. I grappoli vengono quindi gettati per il lavaggio in vasconi pieni d’acqua. Da qui finiscono su un nastro trasportatore che li porta al reparto dove viene apposto il mitico bollino «Del Monte quality». Infine le banane vengono riposte nelle cassette di cartone da spedire in tutto il mondo. I canali del Tortuguero Da Freeman partono alcune piccole imbarcazioni che attraversando canali portano fino al Tortuguero, un parco naturale di straordinaria bellezza, ma ormai circondato dalle piantagioni. Sulle sue spiagge, tra luglio e settembre, si verifica un evento di enorme suggestione: la deposizione delle uova da parte delle tartarughe marine. Purtroppo, come non bastassero i bracconieri, questi animali unici sono minacciati da un altro pericolo, altrettanto subdolo: i sacchetti di plastica azzurra delle banane che, indistruttibili, vagano nelle acque. Con risultati devastanti: le tartarughe liuto, scambiandoli per meduse, li inghiottono soffocandosi! Dov’è finita la foresta pluviale? Il vecchio pullman è pieno come un uovo. Riesco comunque a guadagnare un piccolo spazio accanto a un finestrino. Mi sporgo per respirare un po’ d’aria e guardarmi attorno. Schiacciati come sardine, percorriamo una strada sterrata. Porte e finestre del pullman sono tutt’altro che ermetiche: mangiamo polvere a volontà. Tutto è secco. Mi spiegano che ogni goccia d’acqua è utilizzata per i banani. Si procede in un paesaggio che, dopo un po’, diventa monotono anche per un viaggiatore occidentale. Ma qui non c’era la famosa foresta pluviale? Bribri L’autobus si ferma accanto ad un grande cartellone, sul qual campeggia una scritta «En armonia con la tierra» e poi in tre lingue (spagnolo, inglese e tedesco) un progetto di coltivazione ecologicamente sostenibile, certificato dalla «Rainforest Alliance», una associazione ambientalista americana. In Costa Rica si ha la produttività per ettaro più alta del mondo. Ciò è ottenuto anche grazie ad un impiego altissimo di fertilizzanti e pesticidi. Il prezzo pagato per questa scelta si chiama esaurimento dei suoli in capo a 25 anni, inquinamento delle acque, avvelenamento dei lavoratori. Famoso è il caso delle migliaia di braccianti costaricensi e honduregni resi sterili dal «Nemagon Dbcp» della Dow Chemical, un erbicida utilizzato dalla Dole. Sono stati inoltre riscontrati problemi respiratori, dermatologici e oculistici tra le popolazioni che vivono nei pressi delle piantagioni. Per fortuna, da qualche anno, gruppi ambientalisti internazionali e costaricensi, il sindacato bananero «Sitrap» e la stessa chiesa locale hanno cominciato una campagna di informazione sui gravissimi danni ambientali prodotti dalle piantagioni bananifere. Uno dei progetti più conosciuti va sotto il nome di «Banana Amigo Project», sponsorizzato dalla Rainforest Alliance. Sixaola, confine tra Costa Rica e Panama Sixaola non si può definire un paese. È un insieme di case lungo una strada sterrata, a poche centinaia di metri dal corso d’acqua omonimo, che segna il confine tra Costa Rica e Panama. Zaino in spalla, ci avviamo verso la frontiera, seguendo una strada ferrata che, a giudicare dalle erbacce e dalla mancanza di molte traversine in legno, sembrerebbe inutilizzata. Espletate le formalità doganali. Attraversiamo (sempre a piedi) lo stretto ponte di ferro della ferrovia.

A SPASSO, NEL REGNO DI «CHIQUITA»
Bocas del Toro Il posto di controllo panamense, una modestissima casetta, è appena al di là del ponte, proprio a fianco dei binari. Mentre attendiamo il visto, a passo d’uomo avanza un treno merci. Alcuni vagoni non sono chiusi e possiamo quindi vedere cosa trasportano. Ma non c’è sorpresa: sono scatole di banane. Un militare dalla faccia annoiata monta la guardia nei pressi di un bidone giallo canarino sul quale campeggia la scritta «Chiquita». Qui, nella provincia di Bocas del Toro, sembra di vivere all’interno di un grande spot. Tutto è «firmato» Chiquita. Al porto di Almirante è armeggiata una grossa nave. Sulla fiancata troneggia la scritta della famosa marca dal bollino blu. La multinazionale di Carl Lindner ha in dotazione una vera e propria flotta. Verso Panama City La piccola stazione aeroportuale è una costruzione nuova, ma lasciata incompleta ed abbandonata: mancano porte e finestre, mancano intonaci, indicazioni, luci. Si entra da una porticina laterale. Non ci sono banconi, né computers, né personale. Soltanto qualche poliziotto. Saliamo a bordo di un piccolo bielica della compagnia «Aeroperlas» con destinazione Panama City. Dall’alto le piantagioni sembrano ancora più estese. Mentre voliamo verso la capitale, un solo pensiero occupa la mente: ogni volta vedremo una banana Chiquita, Del Monte o Dole sarà inevitabile pensare al lavoro e allo sfruttamento che stanno dietro quel frutto. E al fatto che la sua dolcezza sia decisamente troppo costosa...
Paolo Moiola

E in Guatemala...

UNITED FRUIT OF GUATEMALA

Possono gli interessi economico-finanziari di una sola compagnia privata cambiare (in peggio, s’intende) il corso storico di un’intera nazione e di tutto un popolo? Possono, eccome possono! Come spesso accade, la realtà supera di gran lunga la fantasia. Leggere per credere.

In Guatemala lo sfruttamento del banano iniziò verso la fine del secolo scorso, in seguito alla crisi del caffè. Le piantagioni sorsero inizialmente vicino alla costa atlantica. Esse appartenevano a due grandi compagnie nordamericane che nel 1899 si unirono per dar vita alla United Fruit Company (UFCo). Nel 1904 la compagnia ottenne gratuitamente una concessione che le affidava per 99 anni la gestione della ferrovia di Puerto Barrios, località situata sulla costa atlantica. Nel 1912 una società della United (l’International railway of Central America) controllava tutta la rete ferroviaria del paese. Alla multinazionale vennero quindi concesse importanti estensioni terriere (esenti da imposte), grazie alle quali potè dar vita a immense piantagioni coltivate essenzialmente a banane. Sotto la dittatura di Jorge Ubico (1931-1944) i salari dei lavoratori (circa 10 mila) delle piantagioni della United furono decurtati, i fermenti rivendicativi repressi. Con il rovesciamento di Ubico s’inaugurò un periodo caratterizzato da riforme economiche e sociali, e da un predominio politico non più dell’oligarchia, ma delle classi medie piccolo-borghesi (composte - si badi bene - da «ladinos», non da indigeni). Il «decennio democratico» (così venne denominato) durò finché non si colpirono gli enormi interessi della United Fruit. Quando questo accadde, i tentacoli della «piovra verde» iniziarono a muoversi. E a mietere vittime. Negli anni Cinquanta la compagnia nordamericana aveva nelle sue mani il monopolio assoluto delle banane (produzione, trasporto e commercializzazione) e un potere immenso. Nello stesso tempo grandi estensioni di sua proprietà rimanevano non coltivate. Ciò era visto come amorale da parte della gente e soprattutto dalla massa dei campesinos senza terra. Il 17 giugno 1952 il governo Arbenz varò una riforma agraria che prevedeva la nazionalizzazione delle proprietà superiori ai 90 ettari, con un indennizzo per i proprietari calcolato sulla base del valore indicato nella dichiarazione dei redditi. Il 4 marzo 1953 il governo di Arbenz espropriò alla United Fruit e alla sua filiale «Compañia Agricola de Guatemala» 154.000 ettari di terra, offrendo il corrispondente indennizzo. La Compagnia reclamò, paradossalmente, che la terra valeva molto di più e cominciò a fare pressioni sul governo statunitense affinché intervenisse. L’amministrazione americana avvertì i cambiamenti come una minaccia al principio della proprietà privata e, soprattutto, agli interessi nordamericani nel paese. Dal punto di vista dei funzionari statunitensi, le legittime decisioni del governo guatemalteco costituivano una provocazione che non poteva essere tollerata. S trette erano le relazioni tra la United Fruit e l’amministrazione Eisenhower: i fratelli John Foster Dulles e Allen Dulles, segretario di stato il primo, direttore della Cia il secondo, avevano avuto importanti responsabilità all’interno della Compagnia. I funzionari nordamericani cominciarono a tramare per far cadere il governo di Arbenz. Improvvisamente il Guatemala venne accusato di «fare il gioco dei comunisti» e di costituire pertanto una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Nel 1954 il governo statunitense lanciò la sua prima forza «contra» (27 anni dopo sarà il vicino Nicaragua a dover sperimentare questo tipo di ingerenza). Il 17 e 18 giugno un esercito di mercenari, radunato in Nicaragua e in Honduras, finanziato e addestrato dalla Cia e assistito da un ininterrotto bombardamento aereo, riuscì a penetrare in Guatemala. La «rivolta popolare» determinò la caduta del presidente eletto, che dichiarò: «Il nostro solo delitto è stato quello di darci delle nostre leggi; il nostro solo crimine di applicarle alla United Fruit». La controrivoluzione diede i risultati sperati: le multinazionali dettarono il nuovo contratto di lavoro; la United recuperò oltre un milione di ettari di terra, precedentemente distribuita ai contadini. Oggi in Guatemala le banane coprono l’8% del valore delle esportazioni, terzo prodotto dopo il caffè (40%) e lo zucchero (10%). La struttura fondiaria è immutata. Il 65% della superficie agraria è posseduto dal 2,6% dei proprietari, rappresentati dall’alta borghesia e dalle compagnie straniere (tra cui la United Fruit). I veri e propri «latifundios» (estensioni oltre i 1.000 ettari) occupano più del 40% della superficie coltivabile e appartengono allo 0,1% dei proprietari. I minifondi, che rappresentano il 90% delle proprietà e occupano il 16% delle terre coltivate, hanno un’estensione variabile da mezzo ettaro a 15 ettari, con rese produttive da pura sussistenza. Non per nulla il 70% degli 1,6 milioni di contadini guatemaltechi vive al di sotto della soglia di povertà e il 40% in stato di estrema indigenza.
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