America Latina ()
Reportage / Nicaragua (1995)

MA SANDINO È ANCORA VIVO?

Disoccupazione superiore al 60%, campesinos che temono di perdere la terra, vecchi latifondisti ed ex somozisti che alzano la voce, ex combattenti della contra e dell’esercito sandinista sul piede di guerra, governo americano «scontento» della presidente Violeta Barrios de Chamorro, sandinisti ormai divisi tra la corrente di Daniel Ortega e quella di Sergio Ramirez. A meno di un anno (novembre 1996)
dalle nuove elezioni presidenziali al paese centroamericano certo non mancano i problemi. Di tutto ciò ne abbiamo discusso con Alejandro Gomez, giovane segretario del Fronte sandinista di Granada.

di Paolo Moiola

GRANADA. L’autobus pubblico impiega due ore per percorrere i 50 chilometri che separano Managua da Granada. Eppure sembra di arrivare in un altro mondo.
Dopo la sensazione di perenne emergenza che la capitale del Nicaragua suscita nel visitatore, qui si respira un’aria più rilassata. Fondata nel 1524, Granada è una città dove l’impronta coloniale si riconosce ad ogni passo. Da sempre conosciuta come città conservatrice, in perenne lotta con la liberale Léon, Granada si trova sulla sponda del lago Nicaragua ed ai piedi del vulcano Mombacho.
Scendiamo nei pressi della grande croce che è posta tra la facciata bianca della cattedrale, il bellissimo complesso conosciuto come «Casa de los Leones» ed il verde del «Parque Central».
Alte palme fanno ombra sui calessi, che stazionano nei pressi del gazebo, in attesa di qualche cliente. Tutt’attorno, la piazza è incorniciata dagli eleganti porticati dei palazzi in stile coloniale.
Chiediamo dove sia la sede locale del Fronte sandinista. Sta a poche decine di metri dalla piazza, poco oltre il cinema. Non è possibile sbagliare: sulla facciata della piccola sede è disegnata l’inconfondibile sagoma di Sandino, con il grande sombrero sul capo. E poi due bandiere, quella del Nicaragua e quella del Fronte sandinista con i colori della rivoluzione: siempre rojo y negro, come recita la scritta.
L’interno non si discosta da quello di molti altri palazzi di Granada. Nel mezzo del patio trova posto un giardinetto ben curato. Tutt’intorno si apre un sobrio, ma piacevole porticato, sotto il quale sono sistemate comode poltrone in vimini, utilizzate per le lunghe discussioni politiche.
Sulle pareti linde sono appesi dipinti e fotografie di sandinisti, più o meno noti. Con lo sguardo cerchiamo l’unico volto che ci è familiare, quello di Daniel Ortega. Eccolo: gli occhiali ed i baffetti rendono la sua faccia inconfondibile.
Ci accoglie una giovane segretaria, studentessa (arrabbiata, «perché il governo ha deciso di farci pagare gli studi») all’università statale di Managua. Senza bisogno di ulteriori presentazioni, siamo accompagnati nello studio del segretario del Fronte sandinista per la provincia di Granada, Alejandro Gomez.

335 MILA ISCRITTI

A volte la memoria si ferma ad una sorta di «iconografia rivoluzionaria», che prevede divise alla cubana o alla sovietica. Alejandro indossa invece una elegante camicia a righe. Ha 32 anni ed un sorriso che incoraggia al dialogo.
Sulla parete, dietro alla scrivania, è appeso un manifesto con disegnati due volti. Vi si legge: Somos hijos de Sandino y Bolivar, Siamo figli di Sandino e Bolivar.
Figli - obiettiamo noi - attualmente molto litigiosi e divisi: Alejandro, che delusione per chi guardava ai sandinisti come ad un esempio da imitare...
«Non posso negare - ci risponde sorridendo con evidente amarezza - che questi ultimi due anni sono stati i più difficili per noi, dopo la sconfitta elettorale del 1990. Nel maggio 1994, al congresso straordinario del Fronte, la corrente di Sergio Ramirez fu nettamente sconfitta. Si aspettavano di essere espulsi, ma non lo furono. In Parlamento essi non hanno però esitato a schierarsi con il governo o con la destra. Su 39 deputati sandinisti 28 sono andati con Ramirez e 9 sono rimasti con Daniel Ortega».
Se questi sono i numeri allora voi siete in minoranza rispetto al «Movimento di rinnovamento sandinista»...
«In Parlamento, non certo nel paese! Alla nostra campagna di iscrizione al Fronte hanno risposto ben 335 mila persone, quasi 1 nicaraguense su 10». Alejandro tira fuori dal cassetto i tabulati di Granada. «Pensate - ci dice, mostrando con orgoglio le statistiche - che soltanto qui a Granada si sono iscritte 3.702 persone. Non è straordinario?»

NICARAGUA CONTRO STATI UNITI

«Nel 1990 avremmo potuto fare manovre sottobanco per falsare le elezioni. Invece, fummo limpidi. Preferimmo salvaguardare il nostro prestigio ed i nostri ideali. Eppure sapevamo di avere contro non tanto l’Unione Nazionale d’Opposizione quanto gli Stati Uniti, la prima potenza al mondo».
Quanto ciò corrisponda a verità si capisce rileggendo qualche discorso dell’ex presidente Ronald Reagan, i cui due mandati (dal gennaio 1981 al gennaio 1989) coincisero proprio con l’epoca sandinista. Nel febbraio del 1985, durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente disse: «La dittatura sandinista in Nicaragua, con il pieno appoggio cubano e del blocco sovietico, non solo perseguita il popolo, la chiesa, nega la libertà di stampa, ma arma e fornisce basi per i terroristi comunisti che attaccano gli stati vicini». Ma persino il sobrio «Wall Street Journal», nel suo editoriale del 15 novembre 1984, scriveva: «Non ci può essere pace in Centro America, finché i sandinisti non saranno eliminati».
Non tutti però la pensavano così. Si legge nel secondo rapporto (del 1988) di Pax Christi sul Centro America: «L’illegalità delle azioni statunitensi contro il Nicaragua fu riconosciuta dalla Corte internazionale di giustizia il 27 ottobre 1986, quando fu stabilito che gli Stati Uniti, con attività dentro e contro il Nicaragua, avevano violato gli accordi internazionali, che impongono di non usare la forza contro un altro stato, di non violare la sua sovranità e di non interferire nei suoi affari interni».
Quando, nel febbraio del 1990, il Nicaragua tornò alle urne, il paese mostrava questo desolante quadro di guerra: almeno 60 mila vittime, 17 miliardi di dollari di danni diretti ed indiretti (qualcosa come 50 anni di esportazioni), un livello di vita della popolazione retrocesso a quello di 30 anni prima. Davanti alla speranza di porre fine a questa guerra infinita, all’incertezza quotidiana, una parte dei nicaraguensi, che nel 1984 aveva votato per Daniel Ortega, abbandonò il Fronte sandinista in favore della coalizione filoamericana della Uno.

COSTOSISSIMI CONTRAS

«Quando mi trovai a combattere per la prima volta, avevo soltanto 14 anni ed il fucile era più grande di me. Il mio Garant lo presi ad un morto della guardia di Somoza. Poi decisero di mandarmi a studiare a Cuba, dove rimasi per un anno e mezzo».
«A Cuba?» - interrompiamo Alejandro fingendo stupore. «Ma allora aveva ragione Reagan. Ricevevate aiuti da Fidel Castro!» La sua risposta è disarmante nella sua semplicità: «Sapete, di solito tra poveracci ci si aiuta».
Si continua: che ci dici di quelli che il presidente Reagan chiamava con enfasi “combattenti della libertà”? «La contra non aveva né consensi né appoggi tra la popolazione. Però aveva un vantaggio che, alla lunga, sarebbe risultato determinante: i soldi del governo gringo. I “combattenti per la libertà” andavano nelle campagne a fare opera di convincimento su campesinos affamati e stanchi. Li convincevano ad arruolarsi o con la paura o con le lusinghe. Ma, nonostante tutto, i contras ebbero un ben misero successo».
Veramente misero se si considera che essi ottennero milioni di dollari dagli americani, sia tramite il Congresso sia per vie meno ufficiali (come dimostrò lo scandalo dell’«Irangate»). Nel marzo 1987, davanti ad un comitato del senato, il generale Paul Gorman disse: «I controrivoluzionari sono del tutto incapaci di ottenere una vittoria militare. Essi non riusciranno ad averla vinta sui sandinisti né entro un anno né entro tre. Non ci riusciranno né con i 100 milioni di dollari che abbiamo erogato loro l’anno passato, né con i 105 che il presidente ha chiesto per quest’anno».

SANDINO È AFFAMATO
Raccontiamo ad Alejandro di eserci imbattuti a Managua in una manifestazione di campesinos, che reclamavano il riconoscimento del diritto di proprietà e la concessione di finanziamenti alla produzione... «Lo sapete, - ci spiega - Sandino era solito ripetere: “La terra appartiene a chi la lavora”. Noi sandinisti applicammo questo sacrosanto principio. Oggi il governo neoliberista vorrebbe restituire la terra a latifondisti ed ex somozisti. Vi pare giusto togliere la terra a migliaia di famiglie di campesinos che non posseggono altro mezzo di sostentamento? Se poi i latifondisti non riescono a vincere con le vie della legge, ci provano con quelle del denaro. Le banche non concedono prestiti a tassi abbordabili ed il governo non fa nulla per agevolare i crediti. Pertanto, non ottenendo finanziamenti per coltivare e produrre, sono gli stessi contadini a trovarsi nella necessità di vendere».
Secondo una stima di «Envio», la prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, a fine 1994 circa il 14% della terra distribuita era già stata venduta e, tra l’altro, a prezzi stracciati (da 75 a 150 dollari per manzana, pari a 0,7 ettari). Vale la pena di ricordare che la complessa riforma agraria messa in essere (a partire dal 1979) dal governo sandinista ha beneficiato oltre 200 mila famiglie contadine che hanno ricevuto circa un milione e 775 mila ettari di terra. Di questi, circa 355 mila sono stati assegnati, alla fine della guerra, a contadini che hanno combattuto o nella contra o nell’Esercito popolare sandinista. Dopo le elezioni del 1990, una parte dei nuovi governanti ha iniziato a spingere per cancellare i benefici della riforma, sperando di tornare ai tempi in cui poche centinaia di somozisti e latifondisti detenevano la quasi totalità della terra.

PER UN’ECONOMIA CHE RISPETTI L’UOMO

A parte la meritoria riforma agraria, la vostra gestione economica fu disastrosa, Alejandro. Nel 1990 avete lasciato un tasso d’inflazione del 13.000% (ma due anni prima era arrivato addirittura al 36.000%) .....
«Nessuno ce l’avrebbe fatta! Dovevamo sostenere spese militare vertiginose per difenderci dall’aggressione statunitense, dentro e fuori del paese. La presidente Chamorro ed il ministro Lacayo hanno ridotto l’inflazione, ma il prezzo pagato è stato altissimo: la disoccupazione è al 60%; il 40% della popolazione vive in uno stato di povertà estrema; solo il 33% dei nicaraguensi possiedono servizi igienici ed il 50% non usufruisce dell’acqua potabile; l’educazione primaria e l’assistenza sanitaria sono divenuti privilegio di pochi».
«Questo accade - obiettiamo - ogni volta che si applica un programma di impronta neoliberista. D’altra parte, in questo momento vi si accusa di non avere un programma economico alternativo». Per tutta risposta Alejandro tira fuori dal cassetto un libriccino del maggio 1995 dal titolo: “Propuesta del Fsln para debatir la orientacion de la economia nicaraguense”.
«Leggete, leggete... Noi vogliamo rispettare i principi dell’economia privata. Però l’economia non può diventare strumento di asservimento o, peggio, di annientamento della dignità umana. Occorre un’economia che assicuri a tutti i diritti basilari: alla salute, all’istruzione, alla ricreazione, allo sport. Invece, il governo di doña Violeta ed Antonio Lacayo ha drasticamente ridotto le spese sociali, eliminato i sussidi pubblici, introdotto le tasse scolastiche».

NON BASTA BATTERSI IL PETTO

«Io sono cattolico come l’85% della popolazione del Nicaragua. Tutti i sandinisti sono cattolici. Ma non basta battersi il petto...»
Cosa intendi dire con questo, Alejandro? «Che non mi piace la gente che va in chiesa per consuetudine. Prega e si pente dei propri peccati. Poi esce e non degna di uno sguardo il poveraccio che cammina per la strada. È questo essere cattolici? Per me, no!»
Però non è stata una buona mossa inimicarsi monsignor Obando y Bravo, cardinale di Managua... «È vero è stato uno sbaglio. Anche se, conoscendo il personaggio, forse non si poteva fare diversamente. Comunque, la base del clero è sempre rimasta dalla nostra parte».
Tanto che padre Ernesto Cardenal, gesuita (sospeso a divinis), ministro della cultura durante il governo sandinista, disse una volta: «Non è il governo che perseguita la Chiesa. Al contrario, siamo di fronte ad un caso di persecuzione della rivoluzione da parte della Chiesa stessa».

IL PESO DEI SOLDI

«Non so se ce la faremo, se potremo tornare a governare i nicaraguensi. Oggi, purtroppo, anche in questo paese non vince il partito che ha più idee, ma quello che ha più soldi».
È ora di andare. Prima di salutarci, Alejandro ci abbraccia. Quasi ci conoscesse da una vita.


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