Interviste (--1997)
Incontro esclusivo con J.B.Aristide

L'ENIGMA "TITID"

Affascinante per il suo carisma, la capacità dialettica e l'imponente bagaglio culturale, l'ex presidente ci lascia con un dubbio: lavora per il popolo haitiano o per tornare al comando? Non sarebbe la prima volta che l'ambizione del potere corrompe anche gli eroi...

di Paolo Moiola e Marco Bello

Port-au-Prince. Mentre guidiamo verso la residenza dell'ex presidente haitiano, guardiamo la strada con più attenzione del consueto, quasi fosse un'attrativa turistica. A Port-au-Prince le strade in condizioni normali (cioè asfaltate e senza buche) sono una rarità. Girano voci che Aristide abbia preteso un trattamento di riguardo per quella che conduce a Tabarre, la sua residenza. Solo una delle innumerevoli "cattiverie" degli avversari politici? Difficile rispondere. Rimane il fatto che "Boulevard 15 Ottobre" è, in effetti, normalmente percorribile, nonostante sia alla periferia della capitale.
Ecco un muro sormontato da filo spinato e un grande cancello in ferro battuto. Ci fermiamo con il pick-up davanti alla regale entrata. Si avvicina un uomo in uniforme che cerca i nostri nomi sulla sua cartellina. Sì, ci sono: possiamo passare. All'interno sono al lavoro un paio di giardinieri. L'ampio prato coltivato all'inglese è di un verde intenso. Posteggiamo poco lontano da una seconda cinta di mura e una seconda cancellata. All'entrata, uomini corpulenti e impeccabilmente abbigliati ci controllano con il metal-detector. Aprono le borse; osservano con attenzione macchine fotografiche e registratori; ci indicano la porta d'ingresso.
La villa (di cui tanto si parla nella capitale) è molto bella. Ha forma circolare e sulle pareti candide s'inerpicano piante e bougainvillea dai colori intensi.
Due giovani segretarie ci fanno accomodare in un salottino rinfrescato dai condizionatori. Dopo pochi minuti, avvertono che "il Presidente" è pronto a riceverci. Entriamo in uno studio ovale, elegantemente arredato con una grande scrivania, un divano e una libreria zeppa di libri. Tra questi trova posto un grande ritratto di don Bosco sorridente.
Aristide ci accoglie con un ampio sorriso e un "buongiorno" in italiano. Mingherlino, capelli cortissimi, baffetti, occhiali, si presenta in camicia bianca e cravatta.

Dottor Aristide, lei è stato sacerdote e presidente. Ci spieghi chi è oggi, in cosa si impegna.
"Sono un servitore dello stato. Anzi, oggi come ieri, continuo ad essere un servitore del mio popolo. Prima di essere presidente, servivo gli haitiani come sacerdote. Poi ho fatto lo stesso (ma sotto una diversa prospettiva) come presidente. Oggi lavoro ogni giorno con 400 bambini della mia associazione. Sono impegnato anche con gli adulti che vogliono partecipare al processo di democratizzazione. Sono cose che mi piacciono e che faccio con amore. Questa mia casa deve servire per tutti quelli che vogliono venire qui per dialogare, per stare insieme. Ciò che più mi importa è la persona umana, il servizio al mio popolo".

Sappiamo che ad Haiti rimangono settori civili ostili alla democrazia. Lei ritiene che il cammino democratico sia un fatto definitivamente acquisito?
"Credo che il processo democratico haitiano sia ad un tempo irreversibile e fragile. La irreversibilità è nella mente stessa del popolo haitiano: non c’è possibilità, per me, che questo popolo possa dire sì al passato, alla dittatura. Oggi gli haitiani lottano pacificamente per far crescere la democrazia: è questo che io intendo per irreversibilità del processo democratico.
Al tempo stesso, Haiti è anche una democrazia fragile perché le istituzioni sono fragili e l’economia è malata. Serve del tempo per far crescere cultura politica e tolleranza democratica. Abbiamo cominciato con la democrazia soltanto alcuni anni fa: abbiamo ancora molta strada da percorrere".

Cosa pensa del presidente Préval?
"Penso che faccia il suo lavoro e che porti avanti il dialogo tra tutti i settori della popolazione haitiana. Ci sentiamo ogni volta che ce n'è la necessità. In un quadro di reciproco rispetto e sempre per il bene del paese".

Come si spiega che lei sia più noto di lui? Non è imbarazzante questo fatto?
"Io sono il primo presidente che ha lasciato pacificamente il palazzo e che è rimasto a vivere nel paese. Préval deve avere la possibilità di essere capo di stato, io deve avere la possibilità di essere cittadino".

È vero che per poter rientrare ad Haiti lei ha dovuto firmare degli impegni con gli Usa sulle privatizzazioni e sulle scelte di politica economica?
"Assolutamente falso. Io non ho firmato niente con gli americani. Né sulla privatizzazione, né sul neoliberismo. Ripeto: è assolutamente falso. Sono tutte manovre fatte per minare la mia credibilità politica e giustificare alcune scelte economiche".

Neoliberismo o controllo pubblico dell'economia: qual è la sua idea?
"Noi vediamo che una piccola percentuale degli abitanti della terra detiene una fetta sproporzionata delle ricchezze mondiali. I poveri divengono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
L'economia neoliberale è un'economia che non tiene conto dell'uomo. Noi abbiamo bisogno di un'economia che metta l'uomo al centro dei programmi, che permetta la sua partecipazione. Una volta che si sia accettato il principio di partecipazione, che si sia creato lo spazio perché i soggetti si esprimano, allora si potrà avere un sistema a misura d'uomo.
Bisogna che il mercato sia libero, ma bisogna che sia anche giusto. Laddove il mercato è giusto si può ascoltare la voce di tutti i cittadini. Non solo di quelli che hanno un conto in banca".

Da dove cominciare per rimettere in sesto la disastrata economia haitiana?
"Prima del 1798 Haiti poteva dare il 60% del caffè mondiale. Il porto della capitale poteva ospitare più barche che quello di Marsiglia. Haiti era prospera, la prima colonia in quanto a ricchezza per la Francia. Anche oggi il nostro è un paese ricco. Nella nostra cultura c'è una grande ricchezza umana; c'è la capacità di accogliere gli altri. La persona umana - uomini, donne e bambini - sono il nostro primo capitale. Se gestiremo positivamente queste ricchezze umane, per Haiti c'è un futuro".

Molti sostengono che ogni sua azione è finalizzata alla campagna elettorale per le presidenziali del 2000...
"Io ascolto tutte le critiche. In un sistema democratico ciascuno ha il diritto di esprimersi, nel rispetto dell'uomo e dei diritti della persona. Perciò chi mi critica ha il diritto di farlo. Io confronto queste critiche con chi sostiene cose diverse. Faccio i paragoni e riscontro che la maggioranza non parla così.
Credo che sia importante ascoltare tutti i commenti, sia quelli favorevoli che quelli che mi sono contro. Tutti debbono capire che da parte mia c'è la chiara volontà di favorire uno spirito di tolleranza democratica".

Lei crede che il popolo di Haiti la sosterrà nella sua nuova corsa alla presidenza?
"Permettetemi di dire questo. Anche se l'analfabetismo raggiunge l'85%, gli haitiani sono molto intelligenti. Si accorgono se una persona mente. Io cerco di parlare il linguaggio della verità, con umiltà e senza demagogia. Oggi lavoro a servire il popolo con sincerità, fedeltà e rispetto. Domani sarà il popolo a decidere. Si vedrà".

A guardare le altissime percentuali di astensione alle ultime elezioni (presidenziali 1995, amministrative 1997), viene da chiedersi se gli haitiani non si siano già stancati della democrazia...
"Nel 1990 gli haitiani andarono a votare in massa. Non votarono per la disoccupazione, ma per il pane, il lavoro, la giustizia. Le astensioni nelle ultime elezioni sono conseguenza delle delusioni, tante e cocenti. Se noi parliamo di democrazia, parliamo di popolo. Bisogna ascoltarlo, interpellarlo per costruire assieme uno stato di diritto".

Com'è cambiata l'isola durante la sua travagliata presidenza?
"Ad Haiti abbiamo sempre avuto uno stato predatore. Nel 1991 e nel 1994 abbiamo iniziato a lavorare per creare uno stato di diritto.
Oggi non abbiamo un esercito. Un tempo c'erano 7 mila militari, cioè uno ogni mille haitiani. Il loro mantenimento assorbiva il 40% del budget nazionale. Era una cosa che non si poteva accettare e dunque abbiamo scelto di bandire le armi e l'esercito. Al tempo stesso, abbiamo creato una forza di polizia che ha il compito di far rispettare la legge, salvaguardando i diritti di tutti quanti".

Come ex prete salesiano, quali sono i suoi rapporti con l'ordine religioso?
"Io sono ancora salesiano. E lo sarò per sempre. Amo i salesiani e san Giovanni Bosco. Vivo in comunione con la loro famiglia. Alcuni fratelli salesiani vengono qui a farmi visita ed anch'io, quando possibile, vado a trovarli".

E con la gerarchia ecclesiastica?
"I miei rapporti con la gerarchia ecclesiastica sono armoniosi. Sono molto contento del rispetto che oggi esiste tra me e loro.
Ad Haiti la chiesa cattolica ha sempre avuto strutture per l'educazione, la salute e altri servizi sociali. Per questo debbo dire grazie a tutti i fratelli che hanno contribuito all'educazione e alla salute del popolo. Noi haitiani serberemo per sempre nel cuore un sentimento di riconoscenza".

Lei è stato un grande sostenitore della "teologia della liberazione". Ed oggi?
"Quattro anni fa, a Parigi, ho incontrato Monsignor Elder Camera. Sono stato fiero di averlo salutato. Attraverso lui ho incontrato il Dio dei poveri, il Dio dell'amore, il profeta che si è donato per il bene di tutti. Mons. Elder lavora perché tutti gli uomini e le donne possano mangiare, godere dei diritti, vivere dignitosamente e nella giustizia. A lui io mi ispiro".

Nel 1991 la Cia fu attore importante nell'organizzazione del colpo di stato del generale Cedras. Eppure lei andò in esilio negli Stati Uniti. Poi, nel 1994, Washington la riportò in patria, impedendole però di recuperare gli anni persi. Ci spieghi un po' questo suo rapporto di amore e odio con gli americani.
"Mah... si dicono molte cose...".

Nel 1990 lei vinse anche grazie allo straordinario appoggio del movimento "Lavalas". Da qui nacque l'"Organizzazione politica Lavalas" (Opl), il più grande e importante partito del paese. Inaspettatamente, nel 1996, lei fondò un suo partito politico, la "Fanmi Lavalas", che oggi si trova quasi sempre su posizioni opposte all'Olp. Perché queste scelte?
"Perché unità non significa uniformità. Perché è importante coltivare l'"unità nella diversità". Nella misura in cui i membri di Lavalas praticano il rispetto delle opinioni altrui, possiamo praticare questa democrazia nei diversi settori della nostra famiglia, in modo da rafforzare lo spirito di tolleranza.
Nel 1990 in Lavalas ci fu la convergenza di diverse organizzazioni popolari, partiti politici, gruppi che si unirono per chiedere democrazia, pace, giustizia, libertà dalla miseria e dalla povertà. Se facciamo un confronto con la famiglia Lavalas di oggi vediamo che la situazione non è del tutto diversa".
(In lingua creola, il termine "fanmi" significa "famiglia"; da qui scaturiscono equivoci, furbizie e giochi di parole, più o meno voluti. Ndr)

Dunque, secondo lei, il movimento Lavalas coincide con la "Fanmi Lavalas"? E l'Opl?
"No, io non dico questo".

Qual è l'idea di stato secondo "Fanmi Lavalas"?
"Lo stato deve essere democratizzato. Il progetto è "democratizzare la democrazia" attraverso la creazione di strutture di partecipazione popolare. Occorre privilegiare gli investimenti tenendo conto della realtà locale, senza aspettare tutto dall'estero. Nella nostra costituzione è scritto che l'educazione deve essere gratuita e per tutti. Purtroppo, le cose stanno diversamente, tanto che l'85% degli haitiani è analfabeta. Uno stato responsabile deve dinamizzare la produzione nazionale, cominciando con una riforma agraria che distribuisca le terre pubbliche fornendo anche i mezzi per la semina e l'irrigazione. È poi inaccettabile che in questo paese non ci siano neppure 2 medici ogni 10.000 haitiani".

Per arrivare in questo studio abbiamo passato due cinta di mura sormontate da filo spinato e una serie di uomini della sicurezza. Lei teme per la sua vita?
"Sono un ex presidente. Ci sono sicuramente persone malintenzionate nei confronti miei e della mia famiglia. Per questo debbo tutelarmi".

E come spiega il lusso di questa casa?
"Io qui ricevo molte personalità straniere. Quanto alla piscina, è aperta a tutti i miei ragazzi...".
(Aristide si riferisce ai ragazzi di "Lafanmi Selavi", l'organizzazione da lui fondata e presieduta. Ndr)

Noi vorremmo tornare a intervistarla nel 2001. Lei crede che potrà riceverci nel palazzo dove oggi siede René Préval?
"Vedremo. Può essere sì, ma anche no. Ciò che mi importa è quello che mi importava nel passato: servire il popolo haitiano".

Paolo Moiola e Marco Bello


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