Si estende su 72 ettari. Ospita 500 alunni che
ricevono un’educazione multidisciplinare, ma
sempre legata al territorio e alla cultura di provenienza. Tra
gli studenti e le comunità locali si cerca una
simbiosi che faccia crescere entrambi. Questo è il «Cecidic», un
istituto esemplare, cresciuto sulla terra che
appartenne a un latifondista. Di pessima fama.
Toribio.
Sembra un campus universitario nordamericano. Forse per la
natura che lo circonda: alberi, colline coltivate,
addirittura un torrente. Forse per quelle costruzioni spartane, ma
funzionali. O forse per quei mattoncini rossi che
ingentiliscono la struttura. Invece, è un istituto superiore creato dalle
comunità nasa del Cauca. Il centro, posto
tra Toribio e San Francisco, porta un nome impegnativo: «Centro di educazione,
abilitazione e ricerca per lo sviluppo
integrale della comunità». In breve, Cecidic. La prima costruzione che si
incontra, oltrepassata l’entrata
dell’istituto, è una palazzina a due piani. Ospita la direzione e gli uffici; a destra di
essa ci sono case
d’abitazione; a sinistra, un salone per le riunioni e le feste; a fianco di questo, un altro edificio, con
i due lati
più lunghi senza pareti, funge da sala mensa. Su un lato della grande sala c’è uno spaccio. «Assaggiate un
bicchiere di malta (una bevanda analcolica ricavata dai cereali, ndr)», ci dice padre Antonio Bonanomi, missionario
della
Consolata, in Colombia dal 1978. «A parte le bevande, tutto il resto si produce qui: pane e dolci, yogurt, succhi
di frutta e
gelati». Mentre stiamo sorseggiando la bevanda, al bancone si avvicina una persona per salutare padre
Antonio. È un
professore di lingua nasa. Il Cecidic è nato proprio perché la scuola statale non teneva in alcun conto
la cultura autoctona,
a partire dalla lingua. «L’idea di partenza - racconta padre Bonanomi - era di recuperare tutti i
valori propri della
tradizione indigena, inserendoli in un contesto moderno. Non aggiungere una cosa all’altra, ma
tentare di far vivere la
tradizione nella modernità». Sull’altro lato della sala mensa c’è la cucina. Alcune
signore stanno pulendo delle
bellissime verdure: carote, patate, cavoli, insalata, cipolle, mais. «Tutti questi
prodotti - spiega soddisfatto padre
Antonio mentre curiosa nei pentoloni - provengono dai nostri orti. Non solo ne
abbiamo a sufficienza per il consumo interno,
ma riusciamo anche a venderne all’esterno. Senza dire dei nostri alberi
da frutto. Ora stiamo provando con la coltivazione
del caffè: abbiamo piantato 10 mila piantine». Al Cecidic tutto è
coltivato senza usare concimi chimici. «Il vero indio -
spiega padre Antonio - si rifiuta di utilizzare questi mezzi
innaturali per non violentare la terra, per non romperne la
sacralità». A poca distanza dalla cucina, c’è
un’officina da fabbro. «Qui i ragazzi imparano a tagliare e saldare i
metalli. Sono loro che hanno costruito tutte le
porte, le finestre, i tralicci della scuola. L’idea è di aumentare e
migliorare la produzione. Per ora, infatti,
facciamo soltanto cose normali, mentre vorremmo fare cose più artistiche:
finestre con fiori in rilievo, porte ornate,
ecc.». Ci incamminiamo verso il torrente che attraversa la proprietà.
«Davanti a noi ci sono i vivai. Da lì sono già
uscite 120-130 mila piante, tutti alberi da frutto o da legna. Piante
originarie del luogo; non abbiamo importato
niente da altre zone». Ma che ne fate?, domandiamo. «Le usiamo per riforestare le
nostre montagne. Nel piano di
sviluppo delle varie comunità c’è un progetto di riforestazione. Questo progetto viene
realizzato dalla scuola». La
deforestazione di queste valli iniziò negli anni ’30 quando i coloni distrussero i boschi
per far posto ai pascoli per
le loro mandrie. Poi, a partire dagli anni ’70, gli indios cominciarono a recuperare le terre.
Negli ultimi anni, però,
il problema della deforestazione si è di nuovo aggravato a causa dell’amapola, la cui coltivazione
si è rapidamente
diffusa. Mentre attraversiamo il piccolo ponte che supera il torrente San Francisco, sul nostro
registratore
annotiamo: autosostentamento della struttura e ricadute immediate sulle comunità locali. «I ragazzi - spiega
padre
Antonio - mettono in pratica nelle proprie famiglie le nozioni apprese a scuola. Soprattutto le tecniche agricole e di
allevamento. Spesso i genitori giudicano con più severità dei professori. Agli studenti più bravi diamo regali in
natura: un
maialino o una coppia di conigli da portare a casa». La prima pietra del Cecidic fu posta nel 1992. Da
allora il centro è
cresciuto senza sosta. Oggi non è solo scuola di arti e mestieri e scuola agropastorale, ma anche
istituto per animatori
comunitari e scuola di comunicazione. E l’espansione continua tuttora. Come dimostra il fervore
dei lavori in corso. I
carpentieri stanno completando gli edifici che ospiteranno altre aule e i laboratori di
chimica ed informatica. «Dove
lavorano con il bulldozer si scava per fare una piscina. Ai ragazzi piace moltissimo
bagnarsi. Una volta si buttavano nel
torrente, ma poi abbiamo dovuto proibirlo perché l’acqua è contaminata dalle
coltivazioni di agave. Quando sarà pronta la
piscina, potranno venire qui con le loro famiglie». Per il momento le
famiglie debbono accontentarsi di riunirsi attorno
ai laghetti dell’istituto e, magari, di praticare la pesca sportiva.
Nei piccoli bacini d’acqua dolce sono infatti allevati
tre tipi di pesce. «I ragazzi che seguono l’allevamento vanno
nelle comunità per portare gli avannotti e aiutare la gente ad
allevarli». Mentre visitiamo il centro, notiamo che
tutte le aule presentano grandi aperture: le finestre sono strutture
metalliche (costruite, ovviamente, nell’officina
dell’istituto) senza vetri. Come mai?, chiediamo a padre Antonio. «Ci sono
ragioni culturali. I nasa non amano i luoghi
chiusi. Molte volte si fa scuola all’aperto».
Piccolo di statura, capelli
bianchi, una faccia da buono che non
lascia prevedere la vigoria dell’uomo. Nonostante si schernisca, senza Antonio Bonanomi
il Cecidic non sarebbe quello
che è. Vale a dire una struttura che, tra maschi e femmine, oggi è frequentata da 450 studenti.
Un centinaio di essi,
quelli che abitano più lontani, sono ospitati dalla scuola. Anche gli insegnanti e le rispettive
famiglie vivono
all’interno dell’istituto, in abitazioni costruite ad hoc per loro. Il missionario, facendo leva su
perseveranza,
tenacia e... capacità di convincimento, ha personalmente raccolto la gran parte dei soldi necessari per
costruire e far
crescere l’istituto. In Italia soprattutto, ma anche nelle stanze dell’Unione europea. Fino al dicembre
1998, padre
Antonio ne era il coordinatore generale. Poi si è fatto volontariamente da parte, lasciando l’incarico a Gilberto
Muñoz, ex alcalde (sindaco) di Toribio. Padre Bonanomi siede ancora nel consiglio di amministrazione del Cecidic,
assieme ai
tre governatori di Toribio, San Francisco e Tacueyo. «Ma - precisa subito il missionario, quasi per scusarsi
- è un organo
più teorico che reale». Il Cecidic è una realizzazione incredibile, soprattutto quando si rammenta che
ci troviamo in una
sperduta regione della Colombia. Ma da buoni giornalisti dobbiamo scoprire qualcosa che non
funziona. Finalmente, ecco una
pecca: l’istituto ha dimenticato tutte quelle persone che si sono ritrovate adulte senza
aver mai avuto l’opportunità di
studiare. «A dire il vero - precisa padre Bonanomi - abbiamo pensato anche a loro. Ci
sono 6 centri per adulti sparsi sul
territorio. Alle lezioni serali che si tengono a Toribio e Tacueyo ci sono più di
200 iscritti. Altre centinaia di adulti,
più giovani, vengono al Cecidic dopo le lezioni dei ragazzi. Seguono corsi più
brevi, ma hanno anch’essi la possibilità di
utilizzare i laboratori, i computers, le attrezzature della scuola».
Padre Antonio, ancora una curiosità: la guerriglia
che sta sulle montagne qui attorno non ha mai attaccato il
centro? «No, mai. È passata, si è fermata, ma non ha mai colpito
la scuola, perché apprezza il nostro lavoro.
Piuttosto, chi ci fa un po’ di paura sono i paramilitari». Cosa potrebbero fare?
«Non lo so. Ma certamente tutto questo
è un pugno in un occhio per loro. Che una comunità indigena riesca a fare qualcosa che
lo stato non ha mai voluto o
potuto o saputo fare...». Dall’alto della collina padre Antonio ci mostra con orgoglio quanto
il Cecidic sia grande.
«Il centro si estende su 72 ettari. Ma la cosa più interessante è che tutta questa valle era di
proprietà di un solo
possidente, uno dei nemici più accaniti di padre Alvaro (ucciso da sicari il 10 novembre 1984, ndr).
Dove ora c’è la
direzione un tempo c’era la sua casa». Anche noi torniamo verso la palazzina della direzione, dato che
abbiamo
appuntamento con un professore della scuola.
Alto e magro, Nestor Wilson Calderon porta dei grandi occhiali
sul
viso giovanile. È professore di religione, etica e morale. Ma è anche conosciuto per essere il mago della
videoregistrazione e nel suo studio lo incontriamo. «I governi che si sono susseguiti fino ad ora - esordisce
Nestor -
non hanno mai investito in educazione. E le conseguenze si vedono: la scuola pubblica è meno che mediocre;
gran parte dei
ragazzi pensa soltanto ad ottenere il pezzo di carta senza riguardo per i contenuti». Quindi,
l’obiettivo del Cecidic è
quello di colmare queste lacune? «Siamo nati per tentare di cambiare un po’ questa
situazione. Ma soprattutto per dare una
svolta alla comunità indigena attraverso un’educazione più partecipativa, più
cosciente, più aperta». E che risposte avete
avuto? «Abbiamo giovani molto coscienti. Tuttavia, ancora troppi non
vanno a scuola o abbandonano presto. Saltano
l’adolescenza e diventano subito adulti con un lavoro e magari una
famiglia». Dei 450 alunni quanti appartengono al
gruppo nasa? «Circa il 90 per cento è nasa, mentre i rimanenti
sono meticci». In generale, com’è la situazione delle
famiglie da cui i ragazzi provengono? «C’è povertà, ma è una
povertà sopportabile. La terra, pur poca rispetto alle
necessità, dà di che mangiare: yucca, patate, fagioli, mais».
Povertà, guerriglia, narcotraffico: chiediamo a Nestor
quale, a suo dire, sia il problema più grave. «Il
narcotraffico - risponde deciso il giovane professore - è come un’erbaccia
che strappi qui e torna a crescere là. È un
problema molto grave perché divide la comunità tra quelli che hanno i soldi e
quelli che non li hanno. E poi crea
bisogni nuovi: gli elettrodomestici, i vestiti, l’auto...». Il lavoro del Cecidic ha
attratto l’attenzione di molte
università (del Cauca, la xaveriana, la San Bonaventura di Cali, la pontificia di Medellin),
che hanno iniziato ad
interessarsi alle attività dell’istituto e anche a collaborare. Ma Nestor rimane con i piedi per terra.
«C’è un
proverbio che recita più o meno così: “la fama ti mette a letto”. Noi misuriamo il successo del Cecidic con altri
parametri, come il crescente numero di iscritti. Questo significa che la gente india ha preso coscienza che
l’educazione può
migliorare le nostre condizioni di vita». Nestor non è di etnia nasa, ma è come lo fosse
diventato, tanto si è
immedesimato nella società indigena. «Io ho studiato a Bogotà. Ora seguo un corso di scienze
sociali con indirizzo
antropologico. Conosco bene i missionari della Consolata. Con loro, qui nel Cauca, ho trovato uno
spazio particolare, molto
importante per la mia vita. Sono convinto della strada che stiamo tracciando: insegnare alla
gente a costruire una nuova
società che collabori con gli altri, ma non dipenda da essi. Perché se si dipende, si torna
schiavi. Credo che il progetto
fatto con il popolo nasa sia un modello da imitare per le altre comunità indigene della
Colombia, ridotte a vivere in
condizioni deplorevoli».
Sono le cinque del pomeriggio. Anche per gli
studenti del Cecidic è giunta l’ora di
tornare a casa. Chi abita più lontano sale sul vecchio autobus della scuola, che
in pochi minuti si riempie fin sopra il
tetto di ragazze e ragazzi festanti. Rombando e suonando il clacson, il
mezzo si avvia pian piano verso l’uscita del
Cecidic, il «college degli indios» nato sulla terra che fu di un
latifondista. Un’altra piccola rivincita per gli indios di
Toribio, San Francisco e Tacueyo.
BOX: IL CABILDO
AUTORITA' INDIGENA"
Rappresenta l’autorità civile e
giudiziaria delle comunità indigene, Organo
collegiale ed elettivo, il cabildo si è guadagnato un ruolo
fondamentale, riconosciuto dalla legge colombiana. Ma
i problemi da affrontare sono molti: la narcoeconomia, i
rapporti con la guerriglia, la questione della
terra. Ne abbiamo parlato con il governatore del cabildo di
Toribio.
Toribio. La sede del cabildo si
trova quasi all’entrata del paese. È una modesta casa ad un piano con una
grande scritta murale: «cabildo indigena
resguardo de Toribio». Il cabildo è l’autorità indigena, collegiale ed elettiva, che
ha giurisdizione su un resguardo;
il resguardo è l’ambito territoriale su cui vive una determinata comunità. Bussiamo e ci
apre un giovane che si
presenta come il custode. Dice che non c’è alcun rappresentante del cabildo, però acconsente a farci
dare un’occhiata
all’ambiente. Sul piccolo e spoglio cortile interno si aprono le porte di alcuni uffici, compreso quello del
governatore, la carica più alta tra i membri del cabildo. Non vi sarebbe nulla di particolare se non fosse per la
presenza, su un lato del cortile, di una grata in ferro che chiude dei loculi verticali, piuttosto stretti. È il
«calabozo»,
una sorta di prigione dove il condannato è costretto a rimanere in piedi per un certo numero di ore. Non si
tratta dell’unica
punizione che il cabildo può comminare. Ci sono anche il «cepo», i ceppi legati al reo; il «latigo»,
vale a dire le frustate;
i lavori forzati nei campi appartenenti al cabildo; infine, il «destierro», l’espulsione dalla
comunità, che costituisce,
probabilmente, la condanna più temuta. In effetti, tra le tante funzioni assegnate al
cabildo dalla legge 89 del 1890 e
dalle norme costituzionali del 1991, c’è anche l’amministrazione della giustizia.
Per saperne di più, chiediamo di poter
parlare con il governatore. Ci spiegano che lo possiamo incontrare alla
festa del «Tablazo», una località posta pochi
chilometri sopra Toribio. Decidiamo di andarvi il giorno dopo.
«Bienvenidos al Tablazo» recita lo striscione. Come lo
stesso nome suggerisce, il luogo è un altipiano, una
radura aperta tra il verde della valle. È ancora presto e la festa non è
ancora entrata nel vivo. Non abbiamo
difficoltà a rintracciare il governatore di Toribio, Marcos Yule Yatacuè. Tarchiato,
capelli neri e lisci, Marcos è con
gli amici Martin, Ricardo e Marino. La funzione del governatore è quella di «servire e
orientare» la comunità, tenere
le relazioni con le autorità statali, vigilare sul territorio, amministrare i fondi che
arrivano dallo stato,
coordinare il lavoro dei 40 membri del cabildo. «Ma - precisa Marcos - sopra di noi c’è il medico
tradizionale,
l’autorità spirituale da cui tutto muove». Nella vita Marcos Yule Yatacuè è un linguista, che insegna ad
altri
professori. È faticoso fare il governatore?, domandiamo. «Sì, perché è un lavoro quotidiano, che ti impegna
costantemente, dal lunedì alla domenica. La comunità si rivolge a te per ogni problema». Marcos lamenta che la sua
posizione
lo costringe a trascurare i 3 figli, ma si vede che è orgoglioso di ricoprire la carica (elettiva, annuale e
gratuita). Chiediamo quali siano le condizioni economiche della comunità. «L’economia è di sussistenza: si produce
per
mangiare. La terra è poca rispetto alle necessità: molte zone sono impraticabili, altre sono ancora in mano ai
latifondisti.
E poi non c’è sbocco di mercato per i nostri prodotti. Per questo molti giovani indigeni decidono di
seminare amapola, coca o
canapa. Sono coltivazioni molto più redditizie». Raccontiamo a Marcos di aver visitato la
sede del cabildo e di aver
visto, con un po’ di stupore, la punizione del calabozo. «Il cabildo - spiega tranquillo il
governatore - amministra la
giustizia ed applica le relative sanzioni. I problemi della giustizia sono attesi da un
“consiglio di investigazione” di 4
persone. Queste raccolgono le dichiarazioni e accertano i fatti. Poi sarà
l’assemblea della comunità a determinare le
punizioni: il numero di frustate, i mesi (o gli anni) di lavoro forzato
nella finca del cabildo, fino alla sanzione estrema
dell’espulsione. Ora stiamo discutendo su come sanzionare gli
indigeni che sono coinvolti nel narcotraffico». Ancora una
volta, dunque, il discorso torna sul problema della
droga. «La narcoeconomia produce una decomposizione a livello sociale.
Genera vizi e invidia. Chi ha di più umilia chi
ha di meno. Proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere l’economia
indigena: solidale e comunitaria».
In
ottobre sono partiti i negoziati di pace tra le Farc e il governo del presidente
Pastrana. Che ne pensa il governatore
di Toribio? «È un negoziato in cui mancano i rappresentanti della società civile»
taglia corto Marcos. E i rapporti
con la guerriglia? «I gruppi armati, le Farc in particolare, contestano la nostra
autonomia. Dicono che dobbiamo essere
inclusi in una sola forma di società, che le differenze e le pluralità culturali non
hanno importanza. Affermano che il
territorio non ci appartiene. Non rispettano l’autorità del cabildo». Però - obiettiamo
- come indigeni non potete
lamentarvi: la costituzione colombiana vi dà ampie garanzie di autonomia. «Noi indigeni di
Colombia abbiamo molti
diritti. Ma sono più teorici che reali. Davanti ai nostri progetti rispondono che non c’è denaro.
Però, lo trovano
subito quando si tratta della guerra o del narcotraffico. Insomma, per ora il cambiamento non si vede. Ma
noi dobbiamo
insistere e spingere in quella direzione». Pa.Mo.
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