HAITI, ai tempi di Aristide (1)
UNA DEMOCRAZIA SENZA PANE
È il paese degli schiavi neri, del vudù e dei «tontons macoutes». È soprattutto il paese più povero dell'America Latina, con una lunga storia di sottomissione e sfruttamento. Depredato dalle potenze straniere, Haiti riceve il colpo di grazia durante la trentennale dittatura della famiglia Duvalier. Il 1990 sembra essere l'anno della svolta: gli haitiani eleggono liberamente il loro primo presidente. Ma Jean-Bertrand Aristide, padre salesiano, è un uomo troppo pericoloso per l'oligarchia locale (e per altri poteri forti). Dopo pochi mesi, viene deposto da un cruento golpe militare. Oggi, ritrovata la democrazia, le fragili strutture della società haitiana rischiano di venire schiacciate dalle difficoltà economiche. E dal disinteresse del mondo.
di Paolo Moiola
Port-au-Prince. Il vecchio nastro trasportatore cigola, manca di qualche pezzo e di tanto in tanto si blocca. Una folla variopinta di passeggeri e curiosi si accalca tutt'attorno. Sotto sguardi attenti sfilano borsoni e vecchie valige. Passano anche una serie di enormi scatoloni di cartone lacerato. Alcuni di essi hanno ceduto all'ultimo maltrattamento e si sono aperti, lasciando fuoriuscire il contenuto. Sul nastro si sono riversati mucchi di vestiti arruffati e di ogni fatta: giacche e pantaloni, gonne e maglie di tutti i colori e le misure. Sono abiti usati che sicuramente finiranno sulle bancarelle di qualche mercato. L'aereo con il quale siamo arrivati era pieno in ogni ordine di posti: alcuni «bianchi» e tanti haitiani, che avevano creato non pochi problemi al personale dell'aeroporto di Miami per i troppi pacchi e bagagli. Ma è consuetudine per chi può permetterselo o per chi ha qualche parente all'estero (sono un milione e mezzo gli haitiani della diaspora) volare nella vicina Florida per fare acquisti. Il genere più ambito sono gli elettrodomestici, seguiti dagli eterni blue-jeans. Comperano per le loro famiglie, ma anche per fare un po' di commercio.
ALLA DERIVA Fuori dell'aeroporto, ci attende un pick-up. Per precauzione, mettiamo tutto al suo interno: accade spesso, nei pressi di alcuni incroci, che bande di ragazzi assaltino le macchine. I distributori di carburante sono protetti da uomini armati di fucile. La violenza di strada è una delle conseguenze della estrema povertà in cui versa la maggioranza della popolazione haitiana. Diventa, allora, subito chiaro il significato di un manifesto murale che recita: «La police et les enfants sont l'avenir du pays», la polizia e i bambini sono l'avvenire del paese. Incrociamo le camionette che sventolano la bandiera azzurra delle Nazioni Unite. I caschi blu (1300 tra canadesi e pakistani) sono ad Haiti dal marzo 1995. Il loro compito era di vigilare sulla restaurazione della democrazia dopo il rientro del presidente Aristide (15 ottobre 1994). Il loro mandato si è concluso il 30 novembre (mentre non si sa quando partiranno i 500 soldati statatunitensi). Gli haitiani che possono permettersi un'auto privata sono un'esigua minoranza. Eppure il traffico di Port-au-Prince è quanto di peggio si possa immaginare. Li chiamano «blocus» gli enormi ingorghi che si formano lungo le poche strade della capitale, dove spesso a fare da spartitraffico ci sono enormi mucchi di immondizie. Può accadere che la circolazione rimanga bloccata per ore, imprigionando migliaia di persone in una gigantesca camera a gas. Le cause sono l'indisciplina dei guidatori, la mancanza di sbocchi alternativi, l'incapacità degli addetti al traffico e altro ancora. Nei «blocus» si ritrova tutta Haiti. Ci sono gli «express partout», vecchi autocarri utilizzati per il trasporto extraurbano di passeggeri e mercanzia. Gli haitiani, soprattutto donne e bambini, viaggiano in piedi o, al massimo, seduti sui sacchi di iuta contententi i prodotti per il mercato. Ci sono le auto della polizia con, sulla fiancata, il nome del benefattore: «dono della Repubblica cinese di Taiwan». Ci sono i «tap-tap», mezzi di trasporto collettivi. Sono camioncini riattati e resi unici perché dipinti con coloratissime scene di vita haitiana o di carattere religioso. Non hanno porte; i clienti salgono dal retro, sistemandosi sulle scomodissime panche. Ci sono i «Mack», mastodontici camion americani capaci di muoversi anche sulle terribili strade haitiane. Ci sono infine i furistrada delle organizzazioni non governative che operano sull'isola. Non esistono regole. Ognuno guida come gli garba. Può accadere che colonne di veicoli invadano la corsia contraria, bloccando di fatto ogni movimento, in un senso e nell'altro. Questo traffico impazzito è una fedele fotografia della realtà di Haiti: un paese abbandonato a se stesso.
L'OLIGARCHIA NON DEMORDE Molti, moltissimi avrebbero grosse difficoltà a trovare quest'isola sulla mappa del mondo. E non solo perché è poco più grande della Sicilia. Coloro che, invece, la conoscono, spesso si fermano soltanto ai suoi aspetti particolari: è l'isola del «vudù» e dei «tontons macoutes» (la famosa milizia costituita da Duvalier: squadroni della morte legalizzati). Altri ancora ne scoprono l'esistenza in occasione di eventi calamitosi: ultimo in ordine di tempo, il tragico naufragio di un battello stracolmo di poveracci nello stretto di Saint-Marc (8 settembre 1997). Haiti, l'ex «perla delle Antille», è il paese più povero dell'America Latina e uno tra i più poveri del mondo. Secondo i dati dell'Onu, il 76% della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà. La disoccupazione è superiore al 50 per cento. La speranza di vita, la mortalità infantile e l'analfabetismo sono a livelli africani. Haiti è abitata da 7 milioni e mezzo di abitanti, divisi su 9 dipartimenti. A questi va aggiunto il milione e mezzo di haitiani che vive all'estero: Canada, Stati Uniti, Bahamas. Fuggiti alla fame o alle persecuzioni della dittatura, oggi formano il cosiddetto «decimo dipartimento», il più ricco: le rimesse di questi emigrati sono fondamentali per una buona fetta degli abitanti di Haiti. Decisamente più sfortunate sono le famiglie di braccianti emigrate nelle piantagioni di canna da zucchero della confinante Repubblica Domenicana. Qui il lavoro si svolge in condizioni di semi-schiavitù. Fin dall'anno dell'indipendenza (1804) sull'isola cominciò a formarsi una élite di privilegiati (3-5 per cento della popolazione). Ad Haiti circa 200 famiglie (Bigio, Brandt, Madsen, Mews, Boulos, Accra, Nadal, Moscoso, Deschamps...) controllano tutta l'economia del paese. Questa oligarchia ha sempre sostenuto i vari dittatori, che ad essa garantivano il perpetuarsi dei privilegi. Nel 1990, Aristide fu eletto con il 67% dei suffragi, avendo però contro tutta l'élite economica. Che non rimase a guardare. Pochi mesi dopo la sua elezione, ci fu il cruento golpe del generale Cedras (uomo della Cia), che certamente non dispiaceva agli avversari del presidente rovesciato.
IL VIRUS DELLA MISERIA L'attività economica prevalente è l'agricoltura. Ma si tratta, in larga misura, di un'agricoltura di pura sussistenza. Eppure, nei secoli precedenti, Haiti era nota per le sue ricchezze. Ancora negli anni '60, l'isola era esportatrice di derrate agricole: caffè, banane, sisal, cotone, canna da zucchero, cacao, tabacco, agrumi. Oggi, mentre le esportazioni sono crollate, il paese si trova a dipendere dall'estero anche per i prodotti di base come riso e mais. «Purtroppo - ci ha confessato il presidente Réne Préval - siamo costretti ad importare il 50% dei nostri prodotti di prima necessità. L'autosufficienza è possibile, ma ci vogliono molti investimenti. Per l'irrigazione, per le strade, per permettere ai contadini di produrre e venire nelle città a commerciare i loro prodotti». Il 71% dei contadini haitiani coltiva un pezzo di terra inferiore a 1,2 ettari. Il 3% dei più ricchi proprietari terrieri possiede più di due terzi delle terre arabili. Lo sfruttamento forestale è stato dissennato, soprattutto durante la dittatura dei Duvalier. I danni sono aggravati dall'abitudine degli haitiani di produrre carbone da legna per sopperire alla mancanza di altri combustibili. Il forte disboscamento ha generato processi di desertificazione ed erosione che hanno fortemente ridotto le terre produttive. La povertà e la mancanza di prospettive hanno indotto molti contadini a lasciare le campagne per le città (Carrefour, Cap-Haitien, Les Cayes, Gonaives) e soprattutto la capitale, in cerca di un lavoro che non c'è. Port-au-Prince ha già raggiunto il milione e mezzo di abitanti. Una gran parte vive in estese bidonville - Cité Soleil, Cité Pelé, Cité l'Eternel ... -, dove le condizioni di vita sono estreme. I tre anni di dittatura militare (e l'embargo internazionale) hanno affossato il piccolo e fragile comparto industriale. I capitali locali sono usciti dal paese, mentre i pochi investitori stranieri hanno preferito spostarsi verso luoghi più tranquilli. Oggi è sopravvissuta qualche industria di trasformazione dei prodotti agricoli e alcune fabbriche di assemblaggio. Alcune di esse sono diventate famose oltre i confini haitiani non per le loro produzioni, ma a causa dello sfruttamento dei lavoratori in esse attuato. Particolare scalpore ha suscitato la fabbrica haitiana dove la Walt Disney (sì, proprio la multinazionale statunitense dei buoni sentimenti e dell'intrattenimento per bambini) produce felpe e pigiami «Pocahontas». Per 2 dollari al giorno le operaie sono costrette a lavorare in condizioni indegne. Il turismo, a causa della mancanza di infrastrutture e della insicurezza, è quasi inesistente, nonostante anche Haiti abbia quelle coste e quelle spiagge che nella confinante Repubblica Domenicana attirano migliaia di turisti occidentali. Le uniche attività in crescita sono quelle legate ai commerci illeciti. In particolare, il traffico di cocaina: Haiti è un ponte ideale tra la Colombia e gli Stati Uniti.
UN PAESE SENZA STATO «Democrazia» non può essere una parola vuota. Non può limitarsi alla organizzazione periodica di elezioni più o meno corrette. Il popolo haitiano ha capito che questa democrazia formale non risolve gli antichi problemi della fame, dell'analfabetismo e della disoccupazione. Il governo di Préval è stato accusato di incapacità, di politiche economiche antipopolari e di soggiacere al volere della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi). Tanto che, dal gennaio 1997, nel paese si è sviluppato un forte movimento di protesta contro l'Fmi, che ha prescritto (come sua prassi) medicine molto amare per risanare la disastrata economia nazionale. Il primo ministro Rosny Smarth si è dimesso il 9 giugno 1997; in agosto Ericq Pierre, il nuovo premier chiamato da Preval, non ha ottenuto la fiducia dell'Assemblea nazionale. Il 3 novembre il presidente ha nominato Hervé Denis, economista, già ministro dell'informazione. Ma anche quest'ultimo non è stato accettato. Una cosa è certa: parlare di privatizzazioni e di riduzione dello stato sociale ad Haiti è una presa in giro. Cosa si privatizza? Cosa si riduce? Il paese vive di stenti. «La situazione economica - ci ha spiegato Gérard Pierre Charles, presidente dell' «Organizzazione politica Lavalas» (Opl) - è talmente grave che il popolo haitiano è convinto che la democrazia non dia né cibo né lavoro. Come possiamo applicare i principi neoliberisti?». Nella stessa Port-au-Prince, avere i servizi essenziali resta un lusso. Anche in centro città, ogni giorno, donne e bambini sono costretti a lunghe file per riempire un secchio d'acqua potabile. L'energia elettrica viene distribuita soltanto a zone e in certi orari. «In generale - ci ha spiegato il presidente Préval - credo che lo stato debba disimpegnarsi dalla produzione di beni e servizi, mantenendo il controllo solo sulle infrastrutture, come ad esempio telefoni ed elettricità. Noi non abbiamo i soldi necessari per investire nei servizi sociali. Per questo chiediamo al settore privato di assumersi quest'onere». Particolarmente grave è l'assenza dello stato nei due settori più importanti: istruzione e sanità. L'educazione è assicurata per l'80 per cento dai privati. In quest'ambito la chiesa, sia cattolica che protestante, è molto attiva gestendo istituti scolastici e collegi. Anche nella sanità le organizzazioni religiose, assieme a quelle non governative, sono in prima linea. Ma questi soggetti non sono in grado di rispondere ai bisogni di tutto un popolo. Fuori dalle città, analfabetismo e problemi sanitari riguardano la quasi totalità della popolazione. Al controllo passaporti dell'aeroporto internazionale di Port-au-Prince avevamo notato una scritta in inglese: «The future belongs to Haiti», il futuro appartiene ad Haiti. Una previsione questa che non si avverrerà né facilmente né in breve tempo. Oggi l'ex «perla delle Antille» sopravvive a forza di espedienti e di un futuro diverso all'orizzonte non c'è traccia alcuna.
Paolo Moiola
|