Agosto 1998 LA NOTTE CHE IL CONGRESSO UCCISE IL REFERENDUM
L'antefatto.
L'articolo 112 della Costituzione peruviana del 1993 prevede che il
presidente della repubblica possa essere rieletto soltanto per un
secondo periodo consecutivo. Il 22 agosto 1996 il Congresso approva la
legge 26657, conosciuta come legge di «interpretazione autentica»
dell’articolo 112: in base a questa norma Alberto Fujimori potrà
candidarsi anche alle elezioni del 2000. Sarebbe il terzo mandato
consecutivo, in palese violazione del dettato costituzionale. Dopo
quella decisione, in parlamento e nel paese si sviluppa un vasto
movimento di opposizione che vuole impedire l’abuso attraverso il
ricorso alla consultazione popolare. In due anni di duro lavoro, il
«Foro Democratico» raccoglie quasi un milione e mezzo di firme. Lo
scopo del referendum è quello di chiedere ai peruviani se sono
d’accordo che il presidente Fujimori si candidi per la terza volta alla
presidenza del paese. Quando sembra che tutto sia pronto per
andare a votare, ecco un nuovo colpo di scena. Per impedire il
pronunciamento dei cittadini, la maggioranza fujimorista fa pressione
sulla «Oficina Nacional de Procesos Electorales» (Onpe) e sul «Jurado
Nacional de Elecciones» (Jne). Nell'agosto 1998, i due organi statali
inopinatamente stabiliscono che il referendum debba passare attraverso
il filtro del Congresso: la consultazione popolare potrà aver luogo
soltanto se otterrà almeno 48 voti a favore. È quasi un requiem per il
referendum, dal momento che il Congresso è dominato da «Cambio 90-Nueva
Mayoria», il partito del presidente (che può contare su 71 dei 120
congressisti).
Lima, 27 agosto 1998. Piazza Bolivar, di fronte
al Palazzo del Congresso. Oggi il Congresso decide la sorte della
consultazione popolare. Dalla statua equestre di Simon Bolivar
scendono due lunghi striscioni con una scritta a caratteri cubitali:
referendum. Davanti al palazzo è stata schierata la polizia. Sono tutte
donne, disposte in due file, che coprono l'intera lunghezza
dell'edificio. La folla che attende la decisione dei congressisti è
variegata. Gli studenti, seduti sul prato, pennelli in mano, preparano
i cartelli della protesta. Fujimori e Vladimiro Montesinos, il
potentissimo (e chiacchierato) assessore del presidente, sono i
bersagli preferiti. Altri alzano al cielo le prime pagine dei maggiori
quotidiani (El Comercio, La Republica etc), tutti schierati in favore
della consultazione popolare. Ci sono pensionati che battono i
tamburi della protesta e intonano gli slogan: «Muera Montesinos, Viva
el referendum». Le donne (che sono tante) portano, legato attorno al
capo, un fazzoletto rosso con una scritta: referendum. «Stiamo
lottando - ci dicono all'unisono tre signore - perché questo governo
non si perpetui in eterno». Nella calca, un'altra signora si avvicina
al registratore: «Io sono una madre di famiglia, che non si è mai
interessata di politica. Ma i miei figli non hanno lavoro – signore – e
io non so come dare loro da mangiare». «Ogni volta che c’è
qualcosa di grave - ci spiega un uomo di mezza età - il presidente esce
dal paese. Lascia che altri prendano le decisioni scottanti,
lavandosene le mani. Così, a cose fatte, potrà dire: "Io non c’ero”».
Il
sole è calato da molte ore, quando in piazza Bolivar si diffonde il
risultato della votazione: la maggioranza dei congressisti (67 contro
45) ha respinto una proposta referendaria, che non avrebbe neppure
dovuto passare attraverso le forche caudine del Congresso. Tra i
manifestanti la delusione è enorme, visibile, palpabile. Molte
studentesse non riescono a trattenere le lacrime. Sessantasette persone
hanno risposto «no» alla legittima richiesta di un milione e mezzo di
cittadini peruviani. Fujimori potrà ripresentare la propria
candidatura. Per la terza volta consecutiva. Ora ci sono quasi due anni
per «preparare» la sua nuova vittoria «democratica».
Paolo Moiola
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