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KURDISTAN (1) Viaggio in una nazione senza stato |
gennaio 1995 |
Kurdistan turco
IL SOGNO IMPOSSIBILE Da decenni la Turchia attua una durissima repressione nei confronti della minoranza kurda. Tutte le province del Sudest vivono in stato di emergenza. I carri armati girano per le strade. Le carceri sono piene di detenuti politici. La tortura e le violazioni dei diritti umani sono prassi. Per bombardare gli accampamenti dei kurdi, i jet dell’aviazione di Ankara sconfinano indisturbati nello spazio aereo dell’Iraq del Nord. Ma la Turchia è un pilastro della Nato e la più salda roccaforte statunitense in Medio Oriente. Per questo, nessuno vede, sente, parla. Nel frattempo la popolazione kurda (12 milioni di persone nella sola Turchia) cerca di sopravvivere come meglio può, divisa tra il supporto al movimento armato del P.K.K. ed il desiderio di una pacifica convivenza. Ne abbiamo raccolto qualche voce.
Imbraccia il mitra, ma il sorriso del militare è genuino. Non di circostanza. Avrà 20 anni. Forse meno. Controlla senza grande attenzione i nostri passaporti. Si vede che ha voglia di parlare. Poi arriva il graduato ed il comportamento si fa più professionale: da dove venite? dove andate? avete giornali? Sulla strada che da Erzurum porta a Kars e, ancora di più, su quella che da Kars conduce a Dogubayazit i controlli di militari, polizia, forze speciali sono molto frequenti. Lungo il tragitto si incrociano carretti trainati da cavalli, muli, greggi guidati da giovanissimi pastori. Ma soprattutto si incontrano carri armati, jeep, camion militari. Siamo nel Kurdistan, cioè nel «paese dei kurdi». Anzi, no: siamo nell’Anatolia orientale, regione dei «turchi di montagna» (così sono chiamati i kurdi dal governo di Ankara).
PKK ED ANNUNCI FUNEBRI Per arrivare a Dogubayazit, dobbiamo superare almeno dieci posti di blocco. La città dista pochi chilometri dal confine iraniano. Da questa vicinanza scaturisce una delle attività economiche più importanti: il contrabbando. Fino a poco tempo fa era abbastanza fiorente anche il turismo legato alle escursioni sul monte Ararat (Karakose, in lingua kurda). Questa montagna vulcanica costituiva una notevole attrazione non soltanto a causa dei suoi 5.165 metri d’altitudine, ma anche perché la tradizione vuole che su di essa si sia arenata l’arca di Noè. Oggi la situazione è mutata. Alle falde dell’Ararat sostano permanentemente i carri armati. Le autorità turche ritengono che sulla montagna trovino rifugio molti guerriglieri del PKK, il movimento separatista kurdo. Proprio qui, nell’estate del 1993, gli indipendentisti sequestrarono un gruppo di stranieri (poi liberati senza danno). «È ormai da due anni che non vengono più turisti» - si lamenta Mehmet -. Questa guerra ci sta portando alla rovina. Sembra che le stesse autorità di Ankara vogliano metterci in ginocchio ingigantendo i pericoli e scoraggiando chiunque a venire qui». Ma tu - è la nostra obiezione - parli di guerra...«Non so che altro termine usare... Guardate qui...». Mehmet ci mostra Özgür Ülke, un quotidiano filokurdo che le autorità di Ankara fingono di tollerare (salvo poi imprigionare e torturare i suoi giornalisti). In prima pagina, ci sono le foto degli ultimi villaggi bombardati dalle milizie dell’esercito turco: Derno, Selehaydan, Golsex, Meleko. E, subito a fianco, la faccia baffuta di Abdullah Öcalan, segretario generale del movimento separatista kurdo. Ma la cosa più «sorprendente» sono i riquadri con gli annunci funebri di guerriglieri del PKK morti sul campo. Ci sono anche le foto: alcune li ritraggono con il volto coperto dalla keffiyah, altre mostrano visi giovani o giovanissimi. Leggiamo qualche nome: Ferhat Tepe, Mavi Gülüslü Cocuga, Yilmaz Uzun, Mehmet Hamidanoglu, Haci Cin detto «Bahoz», Ahmet Agac detto «Sükrü» e molti altri. No, questi non sono semplici necrologi. Sono la testimonianza di una guerra che ha già fatto almeno 10 mila vittime nel solo Kurdistan turco.
VILLAGGI ABBANDONATI E SCUOLE SENZA MAESTRI Sulle pendici dell’Ararat i villaggi kurdi sono tutti abbandonati. L’esercito turco ha fatto una capillare opera di pulizia. L’obiettivo è di isolare i guerriglieri del PKK, che sulle montagne hanno i loro rifugi. Per fortuna non c’è soltanto l’Ararat. Sui rilievi montuosi attorno a Dogubayazit ci sono ancora molti villaggi. Per visitarne qualcuno ci affidiamo a Ahmet, giovane kurdo di 25 anni. Camminiamo attorno ai 2.500 metri d’altitudine. Non ci sono alberi. In compenso gli ampi pascoli sono ideali per l’allevamento di pecore e capre. Ancora oggi la pastorizia rappresenta l’attività prevalente per una fetta consistente della popolazione kurda, quella che vive fuori dei centri abitati e che spesso conduce vita nomade. Pure noi ci imbattiamo in un piccolo accampamento di nomadi. Attorno alle tende gioca un nugolo di bambini. Alcune donne, le più anziane, sono intente a filare la lana. Altre ci invitano ad entrare nelle loro dimore. Anche qui l’ospitalità è sacra. Gli uomini ed i bambini più grandi sono a pascolare il gregge. Per Ahmet l’escursione con noi è anche un’occasione per dare libero sfogo ai propri pensieri. «È democratico - ci chiede pacato - il paese che incarcera i propri parlamentari?». Il riferimento è ai deputati del Partito della democrazia, filokurdo. «No, non c’è democrazia in Turchia. Il paese è, in realtà, governato dall’esercito. Ed io l’esercito lo conosco bene. Ad esso ho dato 19 mesi della mia vita. Non mi facevano fare niente. Non mi hanno mai fatto toccare un’arma a causa dei miei trascorsi politici». «Che hai fatto?» domandiamo curiosi. «No, non pensate male. Io non ho sparato o, peggio, ucciso. Ho soltanto preso parte ad una manifestazione non autorizzata. Mi è costata qualche mese di galera: un’esperienza che io non auguro ad alcuno...». Seguiamo Ahmet con un po’ di affanno. La fatica non deriva tanto dalla difficoltà della salita, quanto piuttosto dal desiderio di non perdere neppure una parola di ciò che la nostra guida racconta. Dopo alcune ore di cammino, raggiungiamo un villaggio. Le capanne sostituiscono le tende, segno che qui prevale l’attività agricola. Accanto alle modeste abitazioni sono accatastati numerosi pani di sterco. Non esistendo legna da ardere, gli escrementi degli animali costituiscono l’unico combustibile a disposizione, indispensabile per superare la rigida stagione invernale. Al centro del villaggio c’è una fontana attorno alla quale sono radunate donne e bambine. Alcune lavano le pentole, altre riempiono d’acqua i propri contenitori. Una costruzione si distingue dalle altre. «Quella? Quella - ci spiega Ahmet - dovrebbe essere la scuola elementare per i bambini del villaggio. Invece è sempre chiusa, perché non ci sono i maestri. Questa è una delle ragioni per cui i guerriglieri del PKK spesso bruciano o distruggono gli edifici scolastici. Si sentono presi in giro. Ancora una volta».
SOLDATI E GUERRIGLIERI: POVERA GENTE Incisa su una collina rocciosa, proprio sopra la frequentatissima stazione dei «dolmus» (minibus), campeggia una famosa frase di Mustafa Kemal Atatürk, padre-padrone della Turchia moderna: «È fortunato chi può dire di essere turco». Fa più male l’occupazione permanente dell’esercito o questa sorta di pressione psicologica? Stiamo passeggiando per le strade di Van, la città posta sull’omonimo grande lago. Ad un certo punto ci soffermiamo ad osservare i giornali esposti fuori di un’edicola, attratti dal tripudio di colori che li caratterizza. «Riuscite a leggerli?» ci chiede all’improvviso una voce da dietro. No, purtroppo. «Io - prosegue il nostro anonimo interlocutore - sono l’editore di quel giornale», e con la mano ce lo indica. «Mi chiamo Irfan Ayaz. Posso invitarvi a prendere un thé nel mio ufficio?». Incuriositi, accettiamo volentieri l’invito. La sede della redazione è estremamente modesta, ma il prodotto è dignitoso. Van Haber, questo il nome, è un piccolo settimanale locale che tira poco più di 3 mila copie. Il nostro ospite si rivela da subito come una persona estremamente interessante. Trentenne, Irfan parla diverse lingue straniere, tra le quali un ottimo italiano. «Non è facile - ci racconta - pubblicare un giornale, anche se piccolo. Pensate che noi dobbiamo stamparlo ad Ankara...». La conversazione prosegue amichevole davanti al consueto bicchierino di thè. Poi il nostro gentilissimo ospite si congeda: «Scusatemi, ma ora debbo andare allo stadio. Il Vanspor, la squadra di calcio della nostra città, gioca la sua prima partita nel campionato nazionale di prima divisione. Sapete, è un avvenimento molto sentito». Con il giovane editore ci rivediamo la sera, in una nota trattoria sulla centralissima Cumhuriyet Caddesi. Qui, dopo aver mangiato degli ottimi spiedini di carne (kebab), il clima è decisamente più confidenziale e la conversazione può andare anche sugli argomenti più delicati. «Sul mio giornale - ci spiega Irfan - non parliamo di PKK, di Kurdistan o di altri problemi politici. In questo modo evitiamo di tirarci addosso le attenzioni della polizia o dei guerriglieri separatisti...». Obiettiamo: ma tu ti senti turco? «Ma che dite! Io sono kurdo: è ovvio. Allo stesso tempo però sono contro tutti i nazionalismi, che da sempre portano soltanto guerra, disperazione e dolore. Il mio sogno è una pacifica convivenza degli uomini, senza bisogno di confini». Irfan, che pensi del-l’arresto dei parlamentari kurdi del Partito della democrazia? «Era inevitabile, purtroppo. Dai loro seggi si sono messi a chiedere a gran voce un Kurdistan libero...». Cosa avrebbero dovuto fare invece? «Agire per migliorare la vita miserevole del popolo kurdo. Questo avrebbero dovuto fare». Secondo te, esiste un problema kurdo? «Questa è una giusta causa, ma il sistema adottato è sbagliato. Ciò che mi fa più male è vedere i guerriglieri del PKK uccidere soldati dell’esercito turco, che per la maggior parte sono ragazzi in servizio di leva. Povera gente, come loro».
ANGURIE E CARRI ARMATI Diyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco, è una città assediata. Anche per questo, le autorità non gradiscono la presenza di stranieri, ritenuti troppo «curiosi». Ed infatti è forte la sensazione che gli agenti controllino ogni nostro spostamento. Nonostante la presenza delle truppe, la città ha un fascino tutto suo. La piazza antistante la Grande Moschea (Ulu Cami) è di notevole attrazione. Non tanto per la sua architettura quanto piuttosto per l’umanità che la popola. Piccoli lustrascarpe si aggirano trascinando la pesante borsa contenente i ferri del mestiere. Altri bambini con agilità si fanno largo tra la gente portando sulla testa grandi vassoi colmi di focacce. Gli adulti siedono su sgabellini di legno attorno ai tavolini. Alcuni giocano a domino o a scacchi. Altri sorseggiano un bicchierino di thé. Altrettanto affollato è il cortile interno della Grande Moschea. Su un lato, accovacciati accanto al muro, conversa tra loro un folto gruppo di anziani. Al centro, ci sono le fontanelle dove i fedeli adempiono al rito del lavaggio dei piedi. È qui che siamo avvicinati da tre ragazzi: «Parlate inglese? Possiamo accompagnarvi?» Seyid, Aziz e Nedim sono studenti ed hanno una gran voglia di conversare con degli stranieri. Sono discreti ed amichevoli. In loro compagnia, camminiamo per le vivacissime strade della città vecchia. Ad un certo punto, la nostra attenzione si volge verso un lato della via dove, tra auto e bancarelle di angurie, è «posteggiato» un carro armato. È un’immagine che, pur consueta in queste settimane di viaggio, ci fa sempre una certa impressione. Chiediamo allora ai nostri tre giovani accompagnatori se quella presenza non sia fastidiosa ed ingombrante. «Lo è. Non è piacevole avere giorno e notte le forze armate che pattugliano strade e piazze. Però è necessario. Loro ci difendono. E difendono anche voi...». Ma - replichiamo - i guerriglieri del PKK dicono di combattere per dare ai kurdi una loro patria... «Noi siamo kurdi. Ma siamo anche cittadini di questo stato. Siamo kurdi a cui va bene stare sotto la bandiera turca». Insistiamo: secondo voi, ragazzi, chi ha torto? Chi ha ragione? «Noi sappiamo soltanto una cosa: che la nostra religione proibisce di uccidere altri uomini...». A forza di chiacchiere, siamo arrivati sotto la cinta muraria. Seyid, Aziz e Nedim ci fanno strada. Siamo fortunati. Questa sera, dalle possenti mura di basalto nero che circondano l’antica Diyarbakir, il tramonto mette in scena uno spettacolo unico. La luce disegna la sagoma degli edifici della città vecchia, mentre dal lato opposto il fiume Tigri e la campagna rilasciano una brezza che, per qualche momento, allevia l’afa opprimente. Diyarbakir appare tranquilla e lontani sembrano i carri armati, i militari, i poliziotti, i mitra. Ma la realtà è ben diversa. Il clima non è sereno. Aleggia il sospetto. Una sera, poco dopo le undici, sostiamo davanti all’entrata dell’hotel a conversare con Ismail, un giovane che parla anche italiano e che nel 1991 fece l’interprete per una rete televisiva italiana durante l’esodo dei kurdi nel nord dell’Iraq. All’improvviso, dalla penombra sbucano alcuni uomini che in un attimo ci stanno attorno. Hanno modi bruschi e sbrigativi. Indossano vestiti comuni, ma dietro la schiena, sotto la cinta dei pantaloni, portano la pistola. «Documenti!» ci intimano senza altri preamboli. Mostriamo il passaporto. Poi, rivolgono la loro attenzione ad Ismail ed al suo amico. Poche parole e, senza tanti complimenti, li trascinano via. Il mattino dopo i due ragazzi sono ad attenderci all’uscita dell’hotel. È un sollievo il rivederli. «Cosa è successo?» chiediamo curiosi. «Ci hanno condotto in gendarmeria. Volevano sapere quando vi avevamo conosciuti. Di che cosa stavamo parlando e, soprattutto, se voi appartenete ad organizzazioni per il rispetto dei diritti umani...». Probabilmente - pensiamo - non è un caso che i rapporti di Amnesty International citino così frequentemente le prigioni di Diyarbakir...
Il PETROLIO, RICCHEZZA PERICOLOSA Lasciamo la città dei nostri amici Seyid, Aziz, Nedim ed Ismail per dirigerci verso Mardin, altro luogo difficile, dove le truppe turche controllano meticolosamente chiunque entri od esca dalla città, mentre enormi antenne-radar della Nato sorvegliano la vicina Siria. Da Mardin andiamo ad Urfa e da qui al Nemrut Dagi, una montagna di grande bellezza sulla cui cima sorge l’incredibile monumento funerario di re Antioco I. Dall’alto del Nemrut si scorgono anche delle trivelle. Per il popolo kurdo, il petrolio da potenziale ricchezza è divenuto ulteriore causa di oppressione. Soprattutto nella zona attorno a Kirkuk, nel Kurdistan iracheno, dove le truppe di Saddam Hussein hanno usato ogni mezzo per reprimere la popolazione kurda e tenere sotto diretto controllo i pozzi da cui estraggono più della metà del loro greggio. Sono le parole del poeta Hejar che più di ogni altro discorso aiutano a capire: «Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio./ A noi, neppure quel poco che serve / per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure».
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