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ARGENTINA Chiuso per fallimento (3)
luglio 2002
VITA DA «PIQUETEROS»

Il colpo di grazia lo diedero, negli anni Novanta, le privatizzazioni del presidente Menem. Oggi, organizzati in vari movimenti, ai milioni di disoccupati e sottoccupati, di poveri e indigenti non resta che far sentire la propria voce. Ogni giorno più forte, considerato che l’incubo della povertà ha colpito anche le classi medie. «Se vayan todos», «se ne vadano tutti» grida la gente a governo e politici. Ma per il paese più europeo dell’America Latina una via d’uscita dalla crisi è ancora tutta da inventare.


Buenos Aires. Il cielo è limpido e il sole fa risaltare il colore atipico della Casa rosada, storica sede del governo. Non è possibile avvicinarsi: una poderosa rete metallica e un folto schieramento di poliziotti in divisa e giubbotto antiproiettile tengono a debita distanza la gente. Sulla rete sono stati appesi striscioni biancorossi con tre parole scritte a lettere cubitali: hambre, represión, impunidad. Plaza de Mayo non è soltanto il cuore di Buenos Aires, ma dell’intera Argentina. Non per nulla quasi tutte le manifestazioni popolari hanno in questo luogo il loro punto di riferimento. Oggi la piazza è invasa da disoccupati, gente di tutte le età rimasta senza lavoro o che mai ne ha avuto uno. Dal palco, posto sotto l’obelisco (la «Piramide de Mayo»), si sgolano vari oratori, mentre tutt’attorno la gente ascolta molto tranquilla, quasi fosse abituata a questo tipo di proteste.
«Non ti sbagli - mi spiega Alba Piotto, giornalista del Clarín, il principale quotidiano del paese -. Tutte queste persone appartengono ai movimenti dei “piqueteros”, divenuti in pochi anni le organizzazioni popolari più conosciute e seguite». In Argentina, il termine piquetero è utilizzato per designare i disoccupati che fanno conoscere la propria condizione attraverso l’interruzione delle vie di comunicazione (all’inizio della protesta, la strada nazionale «22»). La prima manifestazione dei piqueteros viene segnalata nel giugno del 1996, in piena epoca menemista, nella località di Cutral-Cò. Una siffatta modalità di protesta si diffonde rapidamente: nel 1998 viene interrotta una strada a settimana, nel 1999 una ogni giorno e mezzo, nel 2000 almeno una ogni giorno e nel 2001 una media di 4-5 strade al giorno. È questa una vera e propria trasformazione della protesta, che abbandona le mobilitazioni delle grandi organizzazioni sindacali per passare a quelle cresciute spontaneamente in seguito all’aggravarsi della crisi e al diffondersi del malcontento popolare. In particolare, i cittadini dei luoghi più lontani ed isolati individuano nella interruzione delle strade del paese l’unico modo per attirare l’attenzione delle autorità pubbliche.
«Sono molti e ben organizzati - spiega Alba -, anche se non hanno un leader unico. Sono divisi in vari gruppi. Ad esempio, uno si chiama “Teresa Rodriguez”, in ricordo di una giovane donna che morì durante una protesta nella provincia di Neuquén, in seguito alla repressione della polizia. Era il 12 aprile del 1997. Un altro gruppo prende il nome di “Anibal Veron”, un meccanico ucciso dalle forze dell’ordine a Salta il 10 novembre del 2000. Come si vede, la polizia argentina ha spesso usato le maniere forti contro i piqueteros... ».
Forse anche per questo sulla Plaza de Mayo è schierato un servizio d’ordine dei manifestanti, con tanto di bracciale di riconoscimento e una sorta di manganello in mano. Mi rivolgo a uno di loro: «Non temete che i vostri avversari ne approfittino per accusarvi di essere pronti... alla violenza?».
«Ma se ho persino la bandiera su questo bastone! Non lo porto per usarlo. È come avere un grosso cane in una casa: anche se non fa niente, quelli che sono fuori sanno che c’è e portano rispetto. Insomma, noi difendiamo in questo modo le nostre famiglie che vengono fino qui con i bambini, le donne, gli anziani.
Ma non siamo violenti noi! Siamo ben organizzati per uscire in strada e portare avanti le nostre lotte contro questo governo che sta schiacciando il popolo. Non ci sono soluzioni qui per la gente comune: c’è soltanto emarginazione, indipendentemente da chi sia il presidente».
Mi rivolgo alla persona che gli sta accanto: «E lei come si chiama?».
- Mi chiamo Andrés.
- E questa sigla che significa?
- È il nome del movimento: “Movimento indipendente licenziati disoccupati”, ma presto lo cambieremo, perché ci sono infiltrazioni di gruppi che utilizzano il nostro nome per fare cose strane. Quindi, fra poco lo cambieremo. È una misura necessaria, perché qui ci sono persone prudenti che sono rimaste senza lavoro e sono scese in strada per reclamare il giusto.
- Da dove viene?
- Dalla provincia di Buenos Aires.
- Ha famiglia?
- Certamente, come tutti i compagni che sono qui in piazza: tutti noi abbiamo famiglia, una moglie e dei figli da sfamare.

«RUBA AL POVERO, PER DARE AL RICCO»
A lato della piramide di Plaza de Mayo e a pochi passi dal palco dei manifestanti, un uomo in clergyman grigio, con una grossa croce ben in vista sul petto, segue con attenzione gli interventi degli oratori. Ci avviciniamo con l’intenzione di fargli qualche domanda, ma lui stesso ci precede.
«Carissimi, benvenuti in Argentina! La mia famiglia era di Bologna, sapete? Il mio cognome è Baldisseri. Mi chiedete perché sono tra questa gente? La ragione è una sola: perché io ho sempre lavorato con i poveri e quindi aderisco pienamente a questa convocazione pubblica contro la politica economica del governo ».
Che tipo di politica? «Una politica economica che si può riassumere in uno slogan: “ruba al povero per dare al ricco”. O alle multinazionali ».
Quindi lei è qui perché concorda con i motivi della protesta? «Sì, pienamente. Potrei non essere d’accordo con qualcuno di quelli che parlano dal palco, ma sono d’accordo con questa manifestazione». Lei opera a Buenos Aires? «Sì, ho stabilito la mia sede di lavoro in un luogo molto povero: La Matanza. Un paese al sud, fra i più poveri, quelli presi a calci da tutti. Lì lavoro con altri religiosi».
Le chiese argentine che cosa stanno facendo per questa crisi senza fine? «In generale, sono sante e prostitute ad un tempo: sante per la loro essenza; prostitute a causa di molte delle persone che le compongono che vogliono sempre stare con i potenti. Ci sono quelli che scelgono di lavorare per i poveri e quelli che lavorano soltanto per se stessi stando all’interno della chiesa». Come giudica la Mesa de dialogo? «Io penso che la “Mesa de dialogo” non dovrebbe includere solo la componente cattolica. Io, per esempio, faccio parte del “Parlamento argentino delle religioni”, dove sono rappresentate tutte le chiese presenti in Argentina: ci sono evangelisti, rabbini, pentecostali, calvinisti, luterani. Al suo interno nessuno fa proselitismo per la propria chiesa, ma cerca di lavorare di comune accordo con gli altri su alcune cose che si possono fare con la gente e per la gente. Ecco, in questa direzione dovrebbe muoversi anche la “Mesa de dialogo”».
Lei è sempre stato sulle barricate, dalla parte dei poveri? «Sì, sempre. Ho 78 anni: fino a quando potrò sarò al loro fianco».

UN MARITO, DIECI FIGLI, NESSUN LAVORO
Sulla maglietta rosa è appiccicato un adesivo: delegado.
«Mi chiamo Francisca Paz e vengo da Cordoba» ci dice quando le avviciniamo il registratore. Capelli lisci e lunghi tenuti assieme da una fascetta bianca con la scritta Polo obrero, occhi malinconici su una faccia simpatica, la signora Francisca si spiega con parole semplici. «La situazione economica è pessima, perché è tutto molto caro e non c’è lavoro. Io vivo a Villa Libertador a Cordoba. Ho 10 figli e sia io sia mio marito siamo disoccupati. È una situazione molto critica». Da quanto tempo siete senza lavoro? «Mio marito da due anni. Io ho fatto qualche lavoretto. Ogni tanto ».
E come riuscite a vivere? «Con gli aiuti di altra gente: a volte mia suocera, a volte i vicini. Ma, anche quando riceviamo del pane, non è mai sufficiente con 10 bambini». Cosa pensa di fare, Francisca? «Voglio continuare nella lotta. Spero che questa ci aiuterà ad ottenere qualcosa o almeno ad avere un nostro futuro».

SCENDE IN CAMPO LA CLASSE MEDIA
Quando si sono unite le bandiere dei piqueteros con quelle dei cacerolazos? Come sono nati i violenti disordini del dicembre 2001? Il movimento dei piqueteros è nato e si è sviluppato tra la gente appartenente ai ceti sociali più bassi, quelli che l’ultima crisi ha portato a livelli di indigenza assoluta. Per anni la classe media (dipendenti statali, piccoli commercianti, professionisti) era rimasta a guardare, quasi indifferente ai problemi dei disoccupati. Fino al dicembre 2001, quando le ultime decisioni del governo De la Rua (il corralito, in particolare) le fanno rompere gli indugi.
Il 12 dicembre in migliaia scendono per le strade battendo sulle pentole da cucina. Le cacerolas, appunto. È una protesta originale che vuole dare la sveglia ai potenti e, al tempo stesso, ricordare a tutti che le pance sono vuote e la misura colma. Il 18 il Frenapo («Frente nacional contra la pobreza ») diffonde il risultato di una consultazione popolare sull’introduzione di una indennità statale per affrontare la disoccupazione, la povertà e la recessione economica: oltre 3 milioni di argentini si esprimono a favore della proposta.
Il 19 avvengono in tutto il paese numerosi saccheggi ai danni di negozi, in particolare di alimentari, elettrodomestici e vestiti. Fa impressione vedere donne con i bimbi in braccio che entrano nei negozi messi a soqquadro e freneticamente riempiono le borse con pacchi di latte o di farina. Sette persone rimangono uccise. La polizia fa sapere che, nella sola provincia di Buenos Aires, sono state tratte in arresto 2.213 persone, accusate di aver partecipato a saccheggi.
Il 20, mentre si diffonde la notizia delle dimissioni di Domingo Cavallo, la polizia federale comincia a lanciare lacrimogeni sui manifestanti riuniti (pacificamente) in Plaza de Mayo. È il caos. Nei disordini perdono la vita almeno 5 persone. La sera arriva la rinuncia del presidente Fernando De la Rua, che lascia la Casa rosada con un elicottero (e un bel fardello di ignominia).

UNITI, MA PER DOVE?
In Plaza de Mayo svetta un cartellone con una scritta: «Piquete y cacerola la lucha es una sola».
La protesta delle pentole si è unita a quella, più vecchia, dei piqueteros. E il grido che ne esce è unico, forte e deciso: «Se vayan todos!». Che se ne vadano tutti!
(Fine 3.a puntata - continua)


BOX: La chiesa argentina davanti alla crisi del paese
IL PERICOLO DELLA DISSOLUZIONE

Ai tempi della dittatura militare, una parte della chiesa argentina era stata criticata per non essersi opposta con chiarezza alla deriva autoritaria. Oggi la chiesa fa parte assieme al governo di un organo consultivo denominato «mesa de dialogo». Di esso fanno parte 6 persone, tra cui 3 vescovi: Jorge Casaretto, Juan Carlos Maccarone e Artemio Staffolani.
«La “mesa de dialogo” - spiega Mario Guglielmin, missionario della Consolata a Buenos Aires -, accettata dai vescovi dopo un lunghissimo e giustificato tentennamento, si deve all’obbligo morale di tentare l’ultima carta per portare la dirigenza argentina (a tutti i livelli) a prendere coscienza della gravissima responsabilità politico-sociale che le compete in questo momento drammatico». In un breve discorso all’inaugurazione della “mesa”, mons. Karlich, presidente della Conferenza episcopale, aveva ribadito che l’efficacia del dialogo sarebbe dipesa esclusivamente dalla capacità di ogni settore di rinunciare a una parte delle proprie esigenze per favorire il bene comune, condizionando a tale atteggiamento la continuità della partecipazione della gerarchia ecclesiastica. Servirà a qualcosa la «mesa de dialogo»? «In questo momento - risponde con franchezza padre Guglielmin -, la “mesa” continua per rispetto del popolo disperato, ma non ci sono speranze fondate di qualche risultato positivo».
Intanto, lo scorso 25 maggio, il cardinale Jorge Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires e primate dell’Argentina, nella cattedrale metropolitana e davanti al presidente Eduardo Duhalde, ha pronunciato una durissima omelia contro il comportamento di molti alti dirigenti del paese, accusati di lavorare soltanto per mantenere il proprio potere e i propri privilegi.
«La sofferenza altrui e la distruzione causate da questi drogati del potere e della ricchezza sono per loro soltanto numeri, statistiche, variabili». E, mentre la distruzione cresce, per giustificare ed esigere più sacrifici, si ripete la solita frase «non c’è altra via d’uscita».
Il cardinale ha avuto parole pesanti anche per i cosiddetti tecnocrati: «Gli ambiziosi scalatori, che dietro i propri diplomi internazionali e il linguaggio tecnico (tra l’altro, facilmente intercambiabile) camuffano i propri saperi precari e la quasi inesistente umanità» (chissà, c’è da chiedersi, se il cardinale aveva in mente l’ex ministro dell’economia Domingo Cavallo, certamente il più famoso tra i tecnocrati argentini...).
Poi il porporato ha alzato la voce per difendere la gente comune: «Sappiamo bene - ha detto - che questo popolo potrà accettare umiliazioni, ma non la bugia di essere ritenuto responsabile dell’esclusione di 20 milioni di fratelli colpiti dalla fame e calpestati nella dignità».
Mons. Bergoglio ha concluso richiamando la necessità di «aprire gli occhi per tempo», perché dietro l’angolo c’è la dissoluzione nazionale.
Servirà questo potente atto d’accusa del cardinale Bergoglio? «La dirigenza nazionale - annota ancora padre Guglielmin -, teme gli interventi dell’arcivescovo, ma è troppo condizionata dalla sua cronica corruzione e, forse, anche dalla sua oggettiva incapacità per trarne insegnamento».

Per maggiori informazioni si veda il sito della «Agencia informativa católica argentina» (Aica):
www.aica.org


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