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ARGENTINA (1) Storie della dittatura (1976-1983)
maggio 2002

 

 

Introduzione al reportage.
Argentina:
«Chiuso per fallimento»

 

Una gran parte della popolazione argentina si è sempre sentita come degli «europei trasferiti in America Latina». La prima volta che fui in Argentina, qualche anno fa, rimasi impressionato dai prezzi, alti anche rispetto a quelli di una città europea o nordamericana. Mi spiegarono che era la conseguenza della parità monetaria tra peso e dollaro. Poi, uscendo da Buenos Aires, vidi le ricchezze di quel grande paese: le sconfinate praterie, la terra fertile, il petrolio, le bellezze della natura. Ma, allo stesso tempo, scoprii che una fetta consistente della popolazione viveva ai limiti della miseria.

 

Sono tornato in Argentina nei primi mesi di quest’anno e ho trovato un paese prostrato, con file interminabili davanti alle odiatissime banche, una sfiducia assoluta nella classe politica (di qualsiasi colore), piazze piene di manifestanti e negozi vuoti di clienti.

 

Le cifre del tracollo non hanno bisogno di molti aggettivi. Oggi, su una popolazione di 36 milioni, 14 milioni di argentini vivono sotto la soglia della povertà. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 18,3%, mentre quello di sottoccupazione arriva al 16,3%.

 

L’Argentina è un paese che alla sua entrata potrebbe esporre un cartello: «chiuso per fallimento». Sicuramente riaprirà, ma quando e a che prezzo?

 

Accanto al problema economico (e di conseguenza sociale), c’è quello di un passato che non può essere dimenticato, soprattutto da chi ne ha subìto le conseguenze, lasciando nella mente e nel cuore ferite impossibili da rimarginare.

 

In questa serie di articoli gli argentini incontrati parleranno delle difficoltà di oggi e di quel passato che è ancora presente. Dai loro racconti è scaturito il titolo: «le ferite del passato, le lacrime del presente».

 

Pa.Mo.

L'ULTIMO VOLO DI MARIA MARTA

Era la notte del 14 maggio 1976 quando lei sparì. Aveva soltanto 23 anni. Assieme al marito, faceva volontariato in una «villa miseria» dell’immensa periferia di Buenos Aires. Per i militari al potere un atto intollerabile di sovversione comunista. Prima di chiudere tragicamente la sua breve vita, Maria Marta fece in tempo a partorire un bimbo, che... La storia qui raccontata non è diversa da quella di altre 30 mila persone, scomparse nei sette anni di una dittatura per definire la quale qualsiasi aggettivo sarebbe troppo benevolo.

 

Buenos Aires. «Quel giorno cambiò completamente la nostra vita. Mio marito, che era un diplomatico, chiese di lavorare in patria. Io divenni una delle madri di Piazza di Maggio».

Marta Ocampo de Vasquez è una signora di una certa età, elegante e dai modi garbati. Vive in un appartamento arredato con notevole gusto alla Recoleta, un quartiere signorile di Buenos Aires. Famiglia di diplomatici, la signora Marta proviene da un ambiente sociale importante, ma in questo caso l’appartenza non cambia la sostanza. Una sostanza che è il dolore inconsolabile di una madre.

IL SEQUESTRO

«Lei era l’unica femmina in una famiglia di 6 figli. In casa era come una principessa: carina, gentile, molto femminile. Sì, era proprio eccezionale, Maria Marta.

Quando scomparve, mio marito ed io, assieme al più giovane dei nostri figli, vivevamo a Città del Messico. Arrivò una telefonata di un altro figlio: “Mamma, hanno portato via Maria Marta”.

La sequestrarono le forze di sicurezza della marina nel 1976, il 14 maggio, insieme a suo marito Cesar Amadeo, medico veterinario di 26 anni.

Arrivarono alle tre del mattino a casa sua, qui a Buenos Aires. Si fecero aprire la porta dal portiere e poi lo fecero allontanare. Ma lui si nascose dietro una scala e osservò tutta la scena.

Salirono all’appartamento. In casa non trovarono niente di compromettente, ma li portarono via egualmente. Legati e forse incappucciati...».

Perché li portarono via?

«Per i militari tutti coloro che si comportavano fuori dei loro schemi, erano... comunisti. Maria e Cesar facevano un lavoro di volontariato sociale in una “villa miseria”, un luogo simile a una favela brasiliana. Si erano conosciuti in quell’ambito. La loro vita era di lavorare con i poveri. E in particolare con i bambini, perché mia figlia era psicopedagoga. So anche che, per aiutare le persone più bisognose, usavano i loro soldi.

Mia figlia e suo marito seguivano gli ideali peronisti; entrambi erano della gioventù peronista... Non credo che Maria fosse comunista. So invece che era molto cattolica, come quasi tutti i suoi amici. Loro, comunque, erano soliti ripetere: il primo comunista è stato Gesù...».

Sua figlia e tutti gli altri sapevano di rischiare?

«No, penso di no. Anch’io qualche volta andai in quella bidonville per fare la maestra di scuola. Credo che nessuno di noi potesse immaginare che i militari avrebbero reagito così, con massacri, torture, genocidi...».

A quei tempi si sapeva già cosa stavano facendo?

«Io lo seppi dopo, ma comunque non immaginavo che Maria non sarebbe più tornata. Per 8 anni ho atteso che lei bussasse alla porta. I primi anni non volevo muovermi dalla casa perché pensavo: se ritorna, non mi trova... Poi, era il 1984, feci un’intervista con una troupe televisiva italiana che mi chiedeva se stavo ancora attendendo mia figlia. Io risposi di sì. Ma in seguito, con il passare del tempo, con le informazioni che a mano a mano venivo a sapere, iniziai a rendermi conto che non era così. Però mai ho abbandonato la lotta per cercare la verità e ottenere giustizia. Al contrario, credo di aver lavorato ogni giorno di più».

«Dopo che ebbero portato via mia figlia e mio genero, dall’aprile del 1977 cominciai a frequentare “las Madres de Plaza de Mayo”. Sono ormai 25 anni che partecipo a quella simbolica marcia attorno alla piramide di Piazza di Maggio: ogni giovedì c’è qualcuna di noi.

Nei primi momenti, volevo arrendermi. Invece le altre donne mi fecero coraggio. Ancora di più quando si scoprì che non ero soltanto mamma, ma anche nonna...».

IL FURTO DEI BAMBINI

«Seppi che, quando sparì, mia figlia era incinta e che, mentre era rinchiusa all’Esma («Escuela de mecánica de la armada», la scuola di meccanica della marina, uno dei 365 centri clandestini di detenzione), partorì un figlio. Lo scoprii per caso, dopo alcuni anni, quando incontrai sull’autobus una sua amica psicologa. Poi ebbi la conferma dalle rivelazioni di un militare pentito».

Bimbi rubati dagli stessi aguzzini dei genitori! Non c’è fine all’orrore...

«Sì, è questo che fecero. L’altro ieri mi hanno chiesto se li vendevano. Non credo. Avevano una lista di famiglie che volevano avere un bambino. Potevano essere militari o loro amici.

Se le vittime avevano dei bambini, i militari li abbandonavano o li lasciavano ai vicini. Se invece le donne erano incinte al momento del sequestro, facevano nascere il bambino nel centro di detenzione».

E poi?

«Il bambino stava con la mamma al massimo quattro giorni. Poi le dicevano che lo avrebbero dato alla sua famiglia, invece...».

Che fine facevano le mamme?

«La fine degli altri: un viaggio in aereo. Arrivati sopra il mare o sul Rio de la Plata, le persone venivano buttate giù. Vive o, nei casi più fortunati, dopo una iniezione di Pentotal».

E quante persone hanno subito questa sorte?

«Non lo sappiamo... Migliaia, perché ora si sa che anche l’esercito ha fatto lo stesso. Ma il corpo peggiore era quello della marina».

NONNA E NIPOTE

E suo nipote?

«Mio nipote oggi ha 25 anni».

Sa dov’è, cosa fa?

«Iniziai a cercarlo assieme a mio marito. Qualche anno fa individuammo un ragazzo che sembrava corrispondere alle caratteristiche di mio nipote».

E dopo, che è successo? Che si fa in una situazione tanto delicata?

«Finora non siamo riusciti a convincerlo a farsi le analisi per vedere se veramente è lui. Prima c’era il papà che ostacolava la cosa, adesso è lui che non ne vuole sapere. È una situazione difficile, molto dura che fa male sia a noi che a lui. Ma io vorrei morire sapendo che mio nipote conosce la verità. Vorrei potergli spiegare chi era la sua vera madre, mia figlia».

Ma, secondo voi, lui sa di essere stato adottato?

«Adesso lo sa. Però non vuole sapere chi sono stati i suoi veri genitori. Ho potuto parlare direttamente con lui, senza che lui conoscesse chi ero veramente. Ho avuto questa occasione e l’ho sfruttata».

E come si è presentata?

«Con il mio nome. All’inizio lui non ha capito. Abbiamo parlato un po’. Poi mi sono presentata meglio, ma lui non ha voluto proseguire la conversazione».

Quindi, lui considera i genitori adottivi come i suoi veri genitori...

«Sì, perché sono quelli che gli hanno dato amore, educazione e tutto quello che ha».

Sono dei militari?

«No, spero proprio che non lo siano. Sarebbe un dolore ancora più grande. Io non posso dimenticare quello che i militari hanno fatto. Per me il dolore è lo stesso del primo giorno, quando Maria Marta sparì».

I suoi nipoti conoscono la storia di Maria Marta e di suo figlio?

«La conoscono. Un giorno li ho convocati qui da me, tutti e 13. E ho raccontato ogni cosa».

LA VIOLENZA  DELL’IMPUNITÀ

«Sotto il presidente Alfonsin si fece un processo molto grande a tutti i militari. Poi però il governo decise che era giunto il momento di chiudere con il passato e varò la legge “de punto final”, che però non accontentava abbastanza la casta militare. Si inventò allora la legge “de obediencia debida”, secondo la quale tutti avevano obbedito a ordini superiori e, dunque, non erano punibili. Soltanto gli alti gradi furono giudicati e condannati».

Almeno loro...

«Poi arrivò Menem e fece l’amnistia. Anzi, ne fece due, la seconda nel dicembre del 1990, come regalo di fine anno...

Per noi fu un altro colpo molto doloroso: dei criminali, che erano già stati condannati,venivano messi fuori dal carcere. Questa è la violenza dell’impunità».

E ora dove vivono?

«Nelle loro abitazioni. Si è potuto fare qualcosa soltanto per il “robo de los bebes”. Il primo a cadere sotto questa norma è stato il generale Videla. Con lui altri sarebbero andati in prigione, ma sono tutti oltre i 70 anni e per legge non possono stare in prigione. Quindi, anche questi sono nelle loro abitazioni».

E vivono normalmente?

«Quasi, chiusi nelle loro case. Ogni tanto si vede qualcuno... I genitori di alcuni ragazzi spariti dicono di averli visti per strada o in macchina. Allora fanno foto, denunce, manifestazioni di protesta, le cosiddette “escraches”».

A conti fatti, giustizia non c’è stata...

«No, per questo penso sia giusto continuare a lottare. Vogliamo sapere perché portarono via i nostri figli, chi diede l’ordine, chi eseguì tutto questo, quale fu il destino finale».

Non rinuncerete al vostro impegno...

«Andremo in Piazza di Maggio tutti i giovedì, finché non ci sarà detta tutta la verità e verrà fatta giustizia. Loro dicono che non ci sono prove perché è stato tutto bruciato, distrutto, ma non è vero.

Finché potrò, io continuerò a fare la mia lotta a fianco delle madri di Piazza di Maggio, lavorando per preservare la memoria storica e contro l’impunità dei genocidi e dei loro complici».

In questo momento difficile della storia argentina, teme un ritorno del passato?

«Ammetto che sono preoccupata per quel che è successo il 20 dicembre. Mi sono tornati alla mente brutti ricordi. Sono rimasta molto colpita dal comportamento della polizia. Tutto quell’odio contro la gente, con i cavalli, le pistole... Speravo di non vedere più queste cose, dopo 25 anni... Però, rimango fiduciosa nei confronti della democrazia argentina, nonostante ci sia qualcuno che lavora contro di essa».

L’ULTIMO VOLO

Un’ultima domanda, signora Vasquez. Si sa dov’è finito il cadavere di Maria Marta?

«In mare. O nel Rio de la Plata...».

(Fine 1.a puntata - continua)

 

La storia del movimento

Madri di piazza di maggio

Il 30 aprile 1977, un anno dopo la presa del potere da parte dei militari, un gruppo di 14 madri (a cui lo stato aveva sequestrato i figli) si riunì per protestare in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, sede del governo nazionale. Le guidava Azucena Villaflor de Devincenti (a sua volta sequestrata pochi mesi dopo, l’8 dicembre 1977).

Le donne stavano in gruppo. Di lì a poco la polizia, che controllava la piazza, avvertì le convenute di disperdersi in quanto erano proibiti gli assembramenti di 3 o più persone.

Allora le madri iniziarono a camminare attorno alla Piramide di Maggio, posta al centro della piazza. Da quel primo gruppo nacque il movimento delle «Madres de Plaza de Mayo», che raccolse sempre più adesioni in tutto il paese. Da quel giorno, ogni giovedì, dalle 15.30 alle 16.00, un gruppo di madri si riunisce in Piazza di Maggio per reclamare verità e giustizia e per manifestare a favore dei diritti umani, in Argentina e nel mondo.

Nel gennaio 1986 si costituirono due organizzazioni delle Madri di Piazza di Maggio: «Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora» e «Asociación Madres de Plaza de Mayo». Dopo aver affrontato assieme gli anni della dittatura, il movimento si scisse a causa di alcune profonde diversità. Una parte delle madri, la maggior parte di quelle che fondarono il movimento (da qui il nome di «linea fundadora»), considerava necessario un cambio nella metodologia di lotta in seguito al ritorno di un governo costituzionale. Inoltre, era contestata l’attitudine autoritaria e il marcato personalismo della presidente, signora Hebe de Bonafini.

Oggi il gruppo della Línea Fundadora accetta le esumazioni come prova dei crimini commessi e «perché nessuno può proibire a una madre di recuperare i resti di suo figlio». Accetta la legge (n. 24.321) in base alla quale il «detenido-desaparecido» assume la configurazione legale di «persona assente per sparizione forzata», lasciando la «presunzione di morte». Rispetta le madri e le famiglie che hanno adottato la decisione di accettare l’indennizzo economico pubblico (legge n. 24.411), riconosciuto dal governo argentino dietro sollecitazione della «Commissione interamericana per i diritti umani» (Cidh). Con questa legge, dicono le madri della Línea Fundadora, si riconosce il genocidio e gli orrori compiuti dal terrorismo di stato.

«Con Hebe - spiega Marta Vasquez - oggi ci divide quasi tutto: i metodi di lotta, la maniera di parlare, i modi di fare. Tuttavia, c’è una cosa che ci terrà unite per sempre: la perdita dei nostri figli. A lei la dittatura portò via due figli e una nuora. A me una figlia e un genero».

Pa.Mo.

 

Cronologia essenziale

Dalla nascita del peronismo al tracollo neoliberista

1943-1974: Juan Domingo Perón

Nel 1943 entra sulla scena argentina Juan Domingo Perón, uno sconosciuto colonnello rientrato dopo un periodo trascorso nell’Italia mussoliniana e nella Spagna franchista. Come segretario di stato al lavoro riesce a diventare molto popolare tra i proletari e la classe media. I generali prima lo costringono alle dimissioni, ma poi sono costretti a richiamarlo sull’onda delle manifestazioni popolari (famosa è la protesta del 17 ottobre 1945, nota come la manifestazione dei «descamisados», i «senza-camicia»). Perón è eletto presidente nel 1946 e, dopo una modifica ad hoc della costituzione, viene rieletto nel 1951. Nel 1955 il generale è spodestato e costretto alla fuga. Rientra nel 1973 e viene rieletto con il 62% dei voti. Muore il 1° luglio 1974.

1976 - 1983: gli anni della dittatura militare

Il 24 marzo 1976 assume il potere una giunta militare formata dai comandanti delle tre armi (esercito, marina, aviazione). Viene nominato presidente il generale Jorge Rafael Videla, comandante dell’esercito. Sono sette anni di piombo. La dittatura fa sparire circa 30.000 persone, mentre a migliaia, intellettuali e liberi professionisti, prendono la via dell’esilio.

1983 - 1989: Raul Alfonsin

Vince le elezioni Raul Alfonsin. Cedendo alle pressioni delle forze armate, Alfonsin fa promulgare le leggi «de punto final» (1986) e «de obediencia debida» (1987) che lasciano senza sanzioni i colpevoli dei reati commessi durante la dittatura, esclusi gli alti gradi della gerarchia. Sarà Carlos Menem a completare l’opera con due indulti (nel 1989 e 1990) ad hoc per tutti i comandanti: Videla, Viola, Massera e altri.

1989 - 1999: Carlos Menem

In 10 anni di governo Carlos Menem applica un ferreo modello neoliberista privatizzando tutto ciò che si può privatizzare. Dalle casse dello stato scompaiono buona parte dei miliardi generati dalla vendita dei beni pubblici.

27 marzo 1991: parte la parità peso-dollaro

Il ministro Domingo Cavallo fa approvare la «Ley de convertibilidad» (n. 23.928). Secondo questa legge, d’ora in avanti il peso argentino si cambierà 1 a 1 con il dollaro statunitense. Finisce l’inflazione a 3 cifre, ma è anche l’inizio della fine per il sistema industriale del paese, troppo debole per resistere alla concorrenza dei prodotti importati. Chiudono le industrie, aumenta la disoccupazione.

ottobre 1999: vince Fernando De la Rua

Con il 48,5% dei voti, Fernando De la Rua vince le elezioni presidenziali, sconfiggendo Eduardo Duhalde, candidato del Partito giustizialista (peronista).

20 marzo 2001: il ritorno di Cavallo

Schiacciato dai problemi, il presidente De la Rua chiama al capezzale dell’economia argentina Domingo Cavallo, l’uomo che aveva sviluppato il modello di Menem.

dicembre 2001: la rivolta popolare

Il 3 dicembre il ministro Cavallo vara il «corralito»: nessuno può ritirare dalla banca più di 500 pesos/dollari. In pratica, le banche e lo stato confiscano il denaro di milioni di argentini. È la goccia che fa traboccare un vaso stracolmo. Avvengono saccheggi e rivolte di piazza represse con violenza (19-20 dicembre). Il presidente De la Rua si dimette e fugge in elicottero.

2 gennaio 2002: Eduardo Duhalde

I due rami del Congresso eleggono presidente Eduardo Duhalde. Dovrebbe rimanere in carica fino al 10 dicembre 2003. In soli 13 giorni l’Argentina ha avuto 5 presidenti: Fernando De la Rua, Ramón Puerta, Adolfo Rodriguez Saá, Eduardo Camaño e Eduardo Duhalde.

6 gennaio: fine della parità

Il governo stabilisce un nuovo cambio tra dollaro e peso: 1 dollaro è uguale a 1,40 pesos.

4 febbraio: la «pesificación

Tutti i depositi in dollari vengono trasformati, obbligatoriamente, in pesos al cambio di 1,40. Esempio: chi ha un deposito bancario di 10.000 dollari si ritroverà con 14.000 pesos. Viene confermato il «corralito». Il dollaro sarà libero di fluttuare in base alla domanda e all’offerta.

15 aprile: il peso affonda

Un peso vale 2,99 dollari. Nel giro di 3 mesi la valuta argentina si è svalutata del 200%.

Pa.Mo.

 

 

Cliccando su ... alcuni siti internet

- www.madres-lineafundadora.org

il sito delle «Madres de Plaza de Mayo - Linea Fundadora», l’associazione delle madri che nel 1986 lasciarono il gruppo della signora Bonafini

- www.madres.org

il sito della «Asociación Madres de Plaza de Mayo», che fa capo a Hebe de Bonafini

- www.nuncamas.org

il sito che riporta i documenti e le conclusioni della «Conadep», la Commissione nazionale istituita per indagare sulle sparizioni forzate

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