QUALE ECONOMIA? (seconda puntata)
Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze. Ormai il mondo vive in uno stato di crisi economica permanente, che neppure l’economia di guerra riesce più a mascherare. Sono sempre di più gli studiosi che propongono strade alternative all’attuale modello economico. Per ora sono ascoltati soltanto dai loro studenti e dai movimenti contrari alla globalizzazione e al neoliberismo. Ma è facile prevedere che la gravità e l’impellenza dei problemi porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.
Incontro con il professor Wolfgang Sachs NÉ GIUSTIZIA NÉ PACE SENZA ECOLOGIA
Le
fonti energetiche fossili (petrolio, gas, carbone) debbono essere
protette militarmente. Al contrario, le energie rinnovabili, oltre a
non distruggere l’ambiente, si trovano ovunque e pertanto sono di per
sé «pacifiste». A parte la questione energetica, per gli stati e
per i singoli vale lo stesso consiglio: «Realizzare la giustizia non
vuole dire dare di più, ma soprattutto imparare a prendere di meno». A
cominciare dalle risorse naturali.
Tedesco,
ricercatore presso il Wuppertal Institut per il clima, l’ambiente e
l’energia, professore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Wolfgang
Sachs ha studiato sociologia, teologia e scienze sociali.
Professore, come le è nata la passione per le tematiche ambientali? «C’è
una storiella al riguardo. Io avevo 15-17 anni ed ero a Monaco. Un
giorno scoprii che in un giardino della birra (ce ne sono molti nella
città bavarese) stavano lavorando per costruire un parcheggio. Questo
fatto mi fece arrabbiare. Ero infastidito ed offeso: questo non può
essere il progresso, pensai. Io non lo accetto. Da allora i miei
studi si sono mossi in quella direzione. Il mio scetticismo nei
confronti di questa modernità e di questo progresso è stato poi
rafforzato dai miei studi di teologia».
Nell’attuale
società il dogma intangibile è quello del Prodotto interno lordo (Pil).
Secondo lei, il nuovo indicatore dell’«impronta ecologica» può essere
utile per descrivere il collegamento esistente tra ambiente e giustizia? «L’impronta ecologica ha il merito di considerare la dimensione ambientale, completamente dimenticata nell’indicatore del Pil. Un
indicatore come l’impronta ecologica ha il vantaggio di aggregare
consumi diversi in un unico dato - la quantità di terra necessaria per
produrre i beni consumati da ognuno - e rendere così possibile i
paragoni tra nazione e nazione, ma anche tra città e città. Quindi, è
un’ottima base concettuale per parlare di giustizia».
Secondo
la teoria economica i mezzi di produzione sono il lavoro, il capitale e
la terra-natura. Tuttavia, politici ed economisti quasi sempre
sottovalutano quest’ultimo fattore... «Ho due osservazioni:
la prima è che il capitalismo di oggi è un capitalismo poco serio, in
quanto da una parte esalta il capitale economico, dall’altra permette
la rovina del capitale sociale e naturale. La seconda osservazione
è un’osservazione critica verso la nozione di capitale naturale. Nel
momento in cui si parla di capitale, si implica che esso sia conosciuto
per intero e possa essere quantificato. La natura, però, non può
rientrare in questa definizione. Di essa non è possibile tracciarne i
confini, misurarne il volume, in una parola quantificarla. Il contrario
di ciò che avviene: l’attuale visione è estremamente miope».
Gli
Stati Uniti sono i più grandi inquinatori del mondo. Lei proviene dalla
Germania, uno dei maggiori paesi industrializzati del mondo. Il suo
paese si sta comportando meglio degli Usa? «In questo momento
la legislazione tedesca per le energie rinnovabili è abbastanza
innovativa, perché garantisce un prezzo per la rivendita dell’energia
prodotta indipendentemente. C’è motivo di soddisfazione per l’eolico,
meno per i trasporti. Mi piace ricordare che al mondo c’è un
piccolo paese, il Costa Rica, che ha diminuito le sue emissioni di Co2
in modo sensibile, che ha fermato la deforestazione, che non ha un
esercito... Quello che voglio dire è che ci sono stati meno importanti,
che fanno una politica più interessante di altri più noti. Certo, a
livello globale, non siamo in una situazione brillante».
Alluvioni,
uragani, siccità ed incendi sono sempre di più, sempre più frequenti,
sempre più virulenti. Le catastrofi naturali sono un segno della
gravità della situazione? «C’è un pericolo in questa visione.
Perché quando la tua immaginazione viene dominata dall’immagine della
singola catastrofe, non vedi più le catastrofi in scala più piccola.
Pensiamo al cambiamento del tempo. Oggi non c’è più evento
meteorologico o climatico che non sia influenzato dalle attività
economiche dell’uomo. Però non lo vedi, non è misurabile, non è
identificabile. È un po’ come con il cancro. Si sa che tante forme
della malattia dipendono dall’impatto ambientale. Però, quando un
signore X muore di cancro, tu non puoi dire con precisione che la causa
o concausa è stata questo o quell’aspetto dell’inquinamento ambientale.
E così sarà sempre di più per i fenomeni meteorologici. Le conseguenze
serie del cambiamento climatico avvengono in modo silenzioso. È una
nuova melodia nell’evoluzione umana».
Lei è ottimista, se parla di melodia... «È una melodia tragica...».
Cosa le suggerisce il protocollo di Kyoto? Cos’è e cosa sarà? «A parte vedere quanti paesi applicheranno concretamente il protocollo di Kyoto, il problema vero è un altro. Il
problema è che i suoi obiettivi sono ridicoli rispetto alla magnitudine
del problema. C’è un consenso da parte di tutti gli esperti del mondo
scientifico secondo il quale ci vorrebbe una riduzione globale del
50-60% di Co2 nei prossimi 50 anni. Se uno mette nel conto anche la
crescita della popolazione, siamo lontani anni luce da questo
traguardo... Poi c’è il problema dell’inclusione dei paesi in via
di sviluppo... Infine, Kyoto è pieno di scappatoie: è come un formaggio
svizzero con un sacco di buchi. Il motivo per il quale ci sono i buchi
è molto chiaro. Perché gli americani, a suo tempo (era il 1997), hanno
cercato di avere un trattato che alla fine non avrebbe prodotto alcun
cambiamento per la propria economia, il proprio modo di consumo e
produzione. Ecco, perché la cosa migliore per leggere Kyoto è la famosa
battuta di Bush padre: “Si può discutere di tutto, ma non del
cambiamento dello stile di vita americano”».
Che tristezza... «Sì,
e questo non è tutto... Occorre sapere che gli Stati Uniti hanno una
tattica ben precisa, che è sempre la stessa: loro partecipano ai vari
negoziati, li portano al minimo e poi ne escono o ne rifiutano la
ratificazione. Kyoto è solo un esempio. La stessa cosa hanno fatto per
la convenzione sulla bio-diversità. È una tattica di arroganza
sistematica... I delegati statunitensi arrivano alle trattative
internazionali e le uccidono con carte ed avvocati. E spesso gli altri
paesi si debbono adeguare. Sembra primitivo e banale ma purtroppo è
così».
Lei collega la scelta energetica del mondo con la guerra e la pace. Ci spieghi meglio questo collegamento... «Gas,
petrolio e carbone sono presenti sulla terra solamente in alcuni
luoghi, mentre i consumatori di energia si trovano dappertutto. Il
risultato è che l’energia fossile si basa sempre su lunghe catene di
produzione e di approvvigionamento. Queste catene hanno fianchi deboli
e vulnerabili, quindi devono essere protette. Per questo
un’economia fossile sarà sempre un’economia che richiede una maggiore
sicurezza militare. Mentre la situazione è molto diversa per quanto
riguarda le energie rinnovabili: il vento, la biomassa, il sole,
l’acqua. Le fonti delle energie rinnovabili sono dappertutto e
soprattutto si trovano negli stessi luoghi dove vi sono i consumatori.
Ne consegue che con le energie rinnovabili le distanze fra le fonti ed
i consumatori possono essere molto più brevi. Quindi parliamo di catene
di approvvigionamento corte che pertanto non richiedono una protezione
militare. In conclusione: le energie rinnovabili sono energie pacifiste
e non ci sarà pace senza ecologia».
Per l’ambiente è più importante la sensibilità individuale o la responsabilità pubblica? «C’è una dimensione pubblica ed una personale. Sono due cose che dovrebbero completarsi e mai escludersi».
Le
città sono invase dalle auto, che - lo ammettono ormai tutti -
producono inquinamento, diminuzione della qualità della vita, malattie,
effetto serra, eccetera. «Oggi le auto sono più
ecoefficienti di 20 anni fa, ma questo non ha risolto il problema in
quanto, nel frattempo, abbiamo messo sulla strada macchine più potenti,
più veloci o addirittura i fuoristrada. Cosa c’è di più irrazionale che
mettere un fuoristrada nel traffico cittadino dove si va piano e non ci
sono ostacoli da superare? È uno spreco ingiustificato».
Ciononostante sembra che dell’auto la gente non possa fare a meno... «Io
comincerei con l’evitare una domanda: cosa faccio con l’auto? posso
farne a meno? Secondo me, questo è l’approccio sbagliato. Si dovrebbe
partire dicendo che non si vuole la macchina e proprio in base a questa
scelta si conforma la vita di conseguenza... In tal modo, le
scelte di abitazione e lavoro, il modo di muoversi in città, le
abitudini, tutto si formerebbe in funzione di non avere una macchina...
Purtroppo, nella società d’oggi tutto è basato sulla macchina. E
diventa difficile convincere una persona a farne a meno... Personalmente, ho sempre scelto casa con il presupposto che non voglio essere costretto a comprarmi una macchina».
Ha fatto una scelta ecologica... «
Non solo. A volte l’auto può essere interessante ed utile, ma è anche
un oggetto che comporta una spesa continua, un fastidio quando devi
fare delle acrobazie per andare da un posto all’altro... Io non trovo
piacere ad avere una macchina. Nella città dove abito ci sono
quartieri, ristoranti, luoghi che non conosco, perché sono fuori del
mio raggio di azione, mentre lo sono in quello di un automobilista. Non
conosco questi posti e non li ho mai cercati, perché non fanno parte
del mio orizzonte quotidiano. E la cosa strana è che non mi sento
sottoprivilegiato per questo».
Lei parla di una «soddisfazione materiale» e di una «soddisfazione immateriale»... «È
semplice. Ci possiamo permettere più cose, ma abbiamo meno tempo a
disposizione. Ad esempio, possiamo comprarci più Cd di musica, ma ci
manca il tempo per ascoltarli...».
Paolo Moiola
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