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VENEZUELA - I media contro Chávez (2)
settembre 2003
Fronte dei media (2): Ernesto Villegas Poljak

Essere giornalista (in Venezuela):
tra delusione, crisi e dubbi di coscienza

Sul sito reconocelos.com Ernesto Villegas Poljak, noto giornalista a «Venezolana de Televisión», la televisione di stato del Venezuela, si è già guadagnato un posto di rilievo. Gli insulti che gli giungono attraverso le incredibili pagine di questo indirizzo internet sono numerosi, anche se non particolarmente fantasiosi. I gestori del sito sono molto ospitali (con chi insulta), ma si guardano bene dall’assumersi la responsabilità di quel che fanno: «el equipo de reconocelos.com no se hace responsable de los conceptos emitidos por los usuarios».
Con Ernesto Villegas Poljak abbiamo scambiato qualche parola.

La crisi economica, l’opposizione, gli Stati Uniti: quali di questi tre fattori credi più pericoloso per la sopravvivenza del governo Chávez?
«Il pericolo maggiore per la permanenza di Chávez alla presidenza sono gli Stati Uniti. Né l’opposizione né i mezzi di comunicazione (che in questo momento sono la stessa cosa in Venezuela) hanno la credibilità e la capacità di farlo cadere. Credibilità e capacità le hanno perse durante lo sciopero-sabotaggio-insurrezione del dicembre e gennaio passati. La crisi economica è grave e costituisce un pericolo per tutta la società. Tuttavia, finora Chávez è riuscito a mantenere un forte consenso tra i settori più colpiti dalla crisi, che sono le masse popolari. Per tutto questo, dico che il maggior pericolo è rappresentato dagli Stati Uniti, che in questo loro momento di follia potrebbero fare qualsiasi cosa per liberarsi del molesto comandante Chávez: da azioni stragiste fino ad un’invasione (“giustificata” nel contesto di una internazionalizzazione del conflitto armato in Colombia), passando per altre forme meno esplicite come il sabotaggio economico e l’assedio internazionale. I motivi sono chiari: il rifiuto di Chávez di accettare l’“Area di libero commercio delle Americhe” (Alca) e il cattivo esempio che egli rappresenta per gli altri paesi dell’America Latina. Non dobbiamo mai dimenticarci che noi viviamo nel cosiddetto “giardino di casa” della maggiore potenza mondiale».

Sotto l’influenza dell’economia e delle guerre la professione del giornalista si è trasformata negativamente in tutto il mondo. Ma mi pare che in Venezuela la situazione sia particolarmente grave...
«È vero: se oggi essere giornalista è qualcosa di veramente difficile, in Venezuela lo è ancora di più. La trasformazione dei mezzi di comunicazione in partiti politici ha finito per mettere in secondo piano le considerazioni professionali per sostituirle con altre di carattere eminentemente politico. A parte qualche eccezione, oggi la carta stampata, la radio e la televisione funzionano come strumenti partitici, sebbene continuino a portare avanti il tradizionale discorso dell’indipendenza, dell’equilibrio e dell’obiettività. Ovvero, come diciamo qui, “de la boca para afuera”. Questa trasformazione ha svilito la funzione del giornalista all’interno dei mezzi di comunicazione e della società. Io paragono la situazione dei giornalisti venezuelani a quella di un pompiere, al quale i comandanti dicono che non deve spegnere tutti gli incendi, ma al contrario su alcuni va gettata della benzina affinché si ravvivino; e che non deve soccorrere tutti i feriti, ma al contrario alcuni vanno lasciati morire. La contrarietà è molto grande nel pompiere o nel giornalista professionista, salvo per colui che si identifica fanaticamente nella linea politica dei suoi capi. Per quanto mi riguarda, ho smesso di scrivere per le riviste venezuelane, poiché ho visto che la concezione della notizia, nonché i criteri di selezione, priorità, sviluppo e titolazione delle informazioni non sono quelli normalmente accettati, bensì quelli dettati dall’attuale polarizzazione politica. In queste condizioni ho perso l’entusiasmo per lo scrivere e per l’esercizio della professione giornalistica. Nel programma che conduco dal lunedì al venerdì per “Venezolana de Televisión”, il canale di stato, cerco di mantenere una posizione equilibrata e riflessiva, con la maggior pluralità possibile di invitati e di argomenti. Tuttavia, neppure io riesco a sottrarmi alla polarizzazione. Riconosco di aver abbandonato il mio tradizionale equilibrio e ciò mi preoccupa dal punto di vista professionale, anche se come cittadino mi fa sentire molto meglio. La dirigenza dell’opposizione, dominata da fattori internazionali, gruppi economici e proprietari dei mezzi di comunicazione, ha adottato politiche arbitrarie, totalitarie, violente e tanto esplicitamente contrarie a Chávez e soprattutto al popolo e alla sovranità del Venezuela che difficilmente una persona può rimanere indifferente. In ogni caso, tutti i giorni rifletto sulla mia condizione di giornalista e faccio in modo che, al di là delle differenze, si mantenga il rispetto tra i venezuelani, cosa che non vedo nei colleghi con responsabilità simili alle mie. I conduttori dei programmi radio e televisivi, salvo eccezioni, si sono convertiti in agitatori politici e non manca chi apertamente si comporta come un pagliaccio.
D’altra parte, non è facile il mio lavoro con i settori radicali (primitivi, a volte) del chavismo, che non capiscono perché io faccio domande o commenti distinti o contrari ai discorsi ufficiali del governo. So che in alcune sfere del governo e dei partiti della maggioranza ho molti detrattori, che vorrebbero vedere un propagandista al mio posto e che rimangono in agguato sperando nella mia uscita dal programma. Molte volte ho pensato che, con l’approfondirsi della polarizzazione ed esaurito definitivamente lo spazio per il giornalismo, resterò senza lavoro su entrambi i lati. Per questo, ho già iniziato a studiare un’altra professione, quella di avvocato, prevenendo l’eventuale divorzio da un mestiere che ho svolto negli ultimi 12 anni. La mia mancanza di entusiasmo non ha soltanto ragioni nazionali: la crisi del giornalismo è globale (soprattutto alla luce di quanto accaduto con l’invasione dell’Iraq), né si tratta di un fenomeno soltanto statunitense. Mi sembra che sempre più il giornalismo perda l’indipendenza di fronte al potere economico e si confonda con esso. Non ho alcuna voglia di essere (o continuare ad essere?) una pedina di questo ingranaggio ideologico».

Torniamo alla situazione politica. La tua visione al riguardo è più pessimista o più ottimista?
«Le due cose ad un tempo. Pessimista, perché le ferite sofferte dal paese sono molto profonde, sia a livello economico che psicologico, e sarà molto difficile riconciliare esseri umani che condividono uno stesso territorio perlomeno attorno a regole basilari di convivenza. Può prolungarsi una specie di conflitto di bassa o media intensità con un costo economico, sociale e affettivo molto grande.
Al medesimo tempo, rimango anche ottimista, perché esiste ed esisterà un alto grado di politicizzazione della gente, prodotto di una inedita presa di coscienza attorno all’origine delle diseguaglianze sociali e altri problemi strutturali della società venezuelana. Ciò può essere un importante punto di partenza per rendere realtà una rivoluzione che non ha ancora partorito l’“uomo nuovo” di cui parlava Ché Guevara. Non so quale sarà il risultato di tutto questo. Tuttavia, non ho dubbi che il Venezuela contribuirà molto alle battaglie che sosterranno in questi anni i popoli del continente in favore delle loro storiche rivendicazioni e per la costruzione di un mondo più giusto».

Paolo Moiola


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